La vallata di Cialtronia, dicevamo, ha oramai assimilato i difetti della intera società Italiana. Ricordo perfettamente una quindicina di anni fa, quando i pochi che avevano il cellulare lo ostentavano come uno scettro: al ristorante lo tenevano bene in vista sopra al tavolo, e si facevano chiamare dagli amici apposta per farlo trillare, per farsi notare, per ostentare la loro classe sociale. Ed il Casentinese[1] di allora, che poco si faceva intimidire da certe manifestazioni “classiste”, prontamente rispondeva con frasi di sicuro effetto, tipo “e s’è capito, ora rispondi, palle!”, oppure “e ce l’ho anche io ma un rompo mica i cog***ni a tutto ir locale!“, o la sarcastica ma altrettanto efficace  “cotesta s’è imparata, faccene sentì un’artra!“. Oggi invece, ogni Casentinese ha tre cellulari. Li ostenta, fa vedere di avere l’ultimo modello, quello col blutùt, colla fotocamera che fa anche le radiografie, col palmare incorporato, con la pennina, quello che fa il caffè, quello che si sdinocia e si piega tutto, quello grosso come un fagiolo e quello che si apre come una cozza… E vanno in giro con delle tartarughe argentate attaccate all’orecchio, perchè l’auricolare col filo ormai ce l’hanno solo gli Albanesi, e si sono fatti installare duemila euro di navigatore satellitare sul cellulare perché hai visto mai mi potessi perdere per i Guazzi…

E non ostentano solo il telefonino: i Casentinesi una volta andavano in giro con la Simca 1000, oggi si compra il gippone quattroperquattro intercùler ottomiladue, con la televisione, il satellite, il frigobar, la scialuppa di salvataggio, gli interni in Zibellino raro delle Galapagos e Marmo delle Asturie. Ovviamente, il tutto viene immatricolato come Autocarro, così non pagano il bollo!

Da Comunisti a Consumisti: il passo è stato molto breve, giusto una generazione. Nella Vallata di Cialtronia, una volta si andava al mercato. Oggi siamo invasi da colossi della distribuzione. Non c’è più il signor Mario che ci fornisce il cacio buono, ce lo spicca con maestria dalla forma e ai più piccoli ne dava un assaggio… Oggi si va all’ipermercato, si prende una delle settantasette confezioni di formaggio a disposizione (tutti uguali, fatti con lo stampino, nel colore biancastro mortaccino, nella forma e nel sapore) e si paga a una delle trenta casse con la carta di credito. E qui si può notare l’autolesionismo ai limiti del masochismo dei nostri conterranei: quando gli arrivano a casa le pubblicità di questo o quel’ipermercato va fuori di testa! Improvvisamente si rende conto di avere necessità fisiologica del cavatappi ad ultrasuoni con parabola motorizzata incorporata, dello spremiangurie a microonde con trapano a colonna per levare i semi, del frigorifero con degli scompartimenti così grandi che ci devi pagare l’ICI, della televisione ottanta pollici a schermo piatto da attaccare al muro (col muro incorporato per reggerla)… E allora via, a comprare il peggior ciarpame che mente umana possa concepire, non per bisogno, ma per lo smodato consumismo e per la boria di cui sopra. La voglia di possesso acceca il Casentinese, e non gli fa vedere che spesso i prezzi di certi supermercati in realtà sono molto più alti delle care vecchie botteghe, che oggi non regala nulla nessuno e che il famoso e tanto sbandierato tasso zero, in realtà è un animalaccio bastardo che alla fine, senza tanti discorsi, gli interessi li vuole tutti e subito, che anche se si compra con la carta di credito, il quindici del mese dopo comunque la banca i soldi li vuole comunque… Ma anche dall’altra parte, nella vallata di Cialtronia ci sono certi bottegai che grazie all’euro hanno fatto il salto della quaglia: centomila=cento euro. E sono quelli che comprano dai cinesi le merci a tre euro e le rivendono a trecento, e poi si lamentano che i cinesi li faranno chiudere!  Nella Vallata di Cialtronia, modestamente abbiamo anche noi i contadini arricchiti: sono quelli che imitano i cumenda milanesi, e vanno in giro col Rolex da sessantamilioni (pardon 30.987,413 euro), la macchina da duecentomilioni, la villa da un paio di miliardi, il troione[2] a fianco che gli costa (di revisioni e tagliandi… chi vuol intendere intenda) più della macchina. Li riconosci subito: sono quelli che appena scendono dalla stescionuègon modello carrarmato, prontamente si infilano una mano fra la trippa e la cintura e beati e tranquilli si grattano gli ammennicoli con gesti da macaco. Perché i quattrini fanno anche la classe, ed in quanto a finezza, a loro non glie lo ficca in quel posto nessuno!

Ed infine abbiamo le mogli dei suddetti, matrone ingioiellate che fino a ieri con le loro Mercedes modello Star Trek andavano a lavorare nelle ditte del Bengodi, ciarlavano un po’, si limavano le unghiette, portavano un foglietto al direttore (con calma, per non spettinarsi), e a fine mese incassavano i loro sette milioni… Non immaginate che spettacolo, oggi, vederle nei loro tailleur di Dior (rosso), sotto le bandiere del sindacato (che si intonano al tailleur…), accanto a quegli operai che loro hanno sempre disprezzato, a cercare di difendere il loro grasso stipendio!

Questa è la vallata nella quale sono nato. Come dice il mi babbo quando vuol mettere a proprio agio qualcuno che si trova in imbarazzo, “non si preoccupi, noi si viene dalla vanga!“.

E a qualcuno farebbe un gran bene ritornarci, con la vanga in mano, in mezzo ai campi.

[1] Abitante della Vallata di Cialtronia

[2] Identikit del Troione: capigliatura biondo platino, tacco a spillo di settanta centimetri, minigonna ascellare, abbronzatura tipo ustione del terzo grado, tette rifatte. Cervello: optional…

Esiste, ai confini orientali della Toscana, una vallata seminascosta dall’appennino centrale. Essa prende il nome di Cialtronia, dal latino “Valle chiusa”[1]. Questa vallata, pur essendo difficilmente raggiungibile, è lambita nei suoi confini da imponenti testimonianze: la grandezza di Firenze granducale distava solo una giornata a cavallo, la magnificenza delle Signorie di Siena, la civiltà Etrusca di Arezzo, fino a sentire anche l’aria nobile ed allo stesso tempo contadina della Romagna. Invece di essere inebriata dall’aria di tanta grandezza, la popolazione che vi abita ha mantenuto un certo distacco dalla realtà e soprattutto dalle abitudini e dalle regole che appunto dovrebbero regolare il normale svolgersi della vita quotidiana. Come nella maggior parte delle comunità “chiuse”, le abitudini della popolazione autoctona raramente seguono un filo logico o razionale, si preferisce l’imitazione. Alla logica dell’uso dei beni viene contrapposta la necessità personale, e al bene comune viene preferito il “e a me quanto me ne viene in tasca”.

Gli abitanti di Cialtronia, sono talmente rincoglioniti dal loro star (relativamente) bene, che gli avvenimenti e le occasioni favorevoli semplicemente gli passano a fianco sfiorandoli, e l’unica attenzione che il Casentinese[2] riesce a dargli è lo sguardo della mucca che guarda passare il treno. Infatti nella vallata di Cialtronia pur avendo un Parco Nazionale,  cittadine, castelli, pievi, bellezze naturalistiche mozzafiato, non esiste un adeguato servizio di trasporto che riesca a portare i numerosi turisti alla scoperta della vallata. Tanto è che i turisti sono costretti ad affittare un’auto a Firenze o ad Arezzo.

Esiste il problema della lingua: ovviamente nessun abitante della vallata riesce a spiccicare una parola che non sia in puro Casentinese[3] stretto o Italiano toscanizzato:”va giù per er dirittone de Le Tombe, poi quando t’arrivi a la còppe, a lo stòppe der pontealarchiana, tu vorti verso Arezzo”, riesce al massimo ad indicare il Casentinese all’anziano turista Olandese, atterrito da tanta cultura. Immagino il panico negli alberghi all’arrivo dei turisti: per riuscire a capire che cosa sta dicendo il turista di fronte, sono richieste almeno tre telefonate: una alla sorella per avere il cellulare del nipote, una al nipote stesso perchè accorra in aiuto (in quanto egli è studente della seconda classe dell’Itis, e come tale le lingue le mastica come nulla fosse), e la terza al vicino di casa che nel ’78 era andato in viaggio di nozze a Parigi e quindi, per inerzia, doveva per forza sapere le lingue… Alla fine, stremato, l’albergatore sfodera il coraggio della disperazione e comincia a parlare: “Buonasers, volevates unas cameras per stanottes?”

Anche le indicazioni stradali in qualche caso sono decisamente ridicole. Prendiamo l’esempio di Bibbiena. Nel giro di 200 metri troviamo: in Via Dante, a metà fra Bibbiena alta e Bibbiena Stazione, nel curvone troviamo l’indicazione sullo stato di apertura del Passo della Calla!!!  Proseguendo verso il centro storico, all’incrocio delle scuole elementari c’è un bel cartello azzurro che indica: “Cesena 92″. Mica male… Mi sarei aspettato un “Firenze 50″, un “Arezzo 32″, ma chissà perché proprio Cesena… Propongo di attaccare anche un bel “Velletri 215″, o anche un “Varsavia 1603″, non si sa mai, potrebbero fare comodo al viandante. Ma non è finita: salendo poche decine di metri troviamo un cartello che dovrebbe indicare i parcheggi presenti nel circondario. In realtà tale cartello sembra quasi il risultato di una notte di incubi di Picasso, dopo una indigestione di spaghetti a base di polpi e calamari: infatti tentacoli bianchi si inseguono e si aggrovigliano ovunque su un bel fondo azzurro, senza dare la minima idea di dove caspiterina poter parcheggiare la macchina! Rimanendo in tema, il Casentinese nutre una certa avversità verso i cartelli stradali, specialmente quelli di divieto di sosta. Sarà perchè sono troppo vistosi, o forse perché il Casentinese vuole la comodità a tutti i costi, fatto sta che da queste parti le autovetture sono abbandonate ai lati della strada non dove è consentito, ma dove fa comodo. Meglio se sulle strisce, o nei parcheggi per gli invalidi: per avere una idea della intelligenza del Casentinese automobilista, basta passare mezz’ora nel parcheggio del Centro Commerciale di Bibbiena. I primi parcheggi che vengono occupati sono quelli riservati agli invalidi, ovviamente da gente che invalida non lo è neppure se si cerca nelle generazioni precedenti. A chi me ne farà richiesta, sono in grado di fornire le generalità del genio che ha affermato: “Ora vado dal Sindaco e li faccio spostare da un’altra parte quei parcheggi per gli invalidi: proprio vicino all’entrata li dovevano mettere?”. Premio Nobel per la Demenza. Inoltre sempre nella stessa zona, il Casentinese ama lasciare la macchina sotto il cartello di divieto di sosta lungo la strada, attraversare sotto la pioggia e a piedi duecento metri di parcheggio creato apposta per contenere 1000 vetture come la sua,  infilarsi nel supermercato, uscirne con una decina di borse da dieci chili l’una, farsi altri duecento metri a piedi smadonnando e sudando come una lontra, e finalmente tornare alla vettura… Quando poteva tranquillamente parcheggiare nel parcheggio (da qui il nome, appunto), a 5 metri dall’entrata del supermercato. Ma si sa, il Casentinese ama il brivido, e la sfida: per sentire l’adrenalina c’è chi si butta col paracadute e chi si limita alla roulette russa col divieto di sosta… Ovviamente nella Vallata non sono amate le forze dell’ordine: infatti quando il Casentinese piazza la vettura nel parcheggio degli invalidi, e gli viene portata via dal carro attrezzi, il Casentinese inveisce e sbraita contro l’agente di turno, difendendosi con le solite frasi: “sono arrivato ora”, “vado via subito”, “ho accompagnato il mi zio cieco”, fino al classico dei classici “ma lei non sa chi sono io”. E quando si parcheggia col gippone nel borghiciattolo delle nostre cittadine medievali, sigillando il traffico per intere ore, creando ingorghi chilometrici che si vedono fin dalla consuma, al vigile che gli sta facendo la multa riesce a dire: “oh, vado via subito, eh!”. Anche ai Carabinieri, quando i Casentinesi vengono sorpresi senza cinture, di notte con i fari spenti, senza il triangolo, con la targa penzoloni, in sette in auto, sotto i fumi dell’alcool, riescono a dire: “andate a prendere i ladri invece di dare noia (!) alle persone per bene (???)”.

Ma il vero tarlo del Casentinese è la boria. L’apparire, il mostrarsi, il competere fa parte del DNA del Casentinese. E così abbiamo i giovani che escono da scuola e lavorano per un anno come vice-aiuto-manovale giusto per comprarsi il Rolex da duemila euro, perché con quello al polso, il sabato sera al Cirulà, le spose gli cascano ai piedi. Si mangia pane e cipolla per due anni, ma alla fine si compra il Mercedes! (non importa se dopo sei mesi si deve rivendere perchè non ci si fa a mantenerlo). Abbiamo operai da seicento euro al mese che devono mantenere delle matrone ingioiellate che necessitano della palestra, della cura omeopatica, del parrucchiere, della borsetta di Prada, del corso di Yoga (o yogurt, tanto per loro è uguale)…


[1] Più o meno…

[2] Abitante della vallata di Cialtronia

[3] La lingua ufficiale della vallata di Cialtronia

Gli americani ci hanno sempre fregato con la lingua. Loro non hanno la due-mari da Fano a Grosseto: loro fanno il Coast-to-coast! Hanno le highways, che sarebbero le nostre autostrade, ma vuoi mettere la Salerno-Reggio Calabria con la loro mitica Statale 17? Da loro potevi incontrare Kerouac in un Motel del Nevada col mozzicone di matita che scriveva su un blocco polveroso, da noi al massimo incontri Pippo Baudo all’Autogrill di Badia al Pino che addenta un topaccino al formaggio.

Loro raccontano: “Abbiamo preso la vecchia Cadillac del 65 del padre di John, ed abbiamo puntato a sud, verso il Nebraska. Ci fermammo solo al tramonto…”. Si ha la sensazione degli spazi immensi, del sole sul parabrezza della vecchia vettura cromata con la cappotta bianca tirata giu, del tramonto imminente, dei motel nel deserto…

Noi, in Casentino come possiamo controbattere? “S’è preso la Punto der babbo de Riccardo, siam partiti da Campolombardo… Poi, al Ponte All’Archiano s’è trovato la Sita e siamo arrivati a Ceciliano che l’era buio”. Non è la stessa cosa, per la miseria. Abbiamo delle difficoltà oggettive, che nella nostra vallata diventano ancor più evidenti a causa della condizione della viabilità, che è arrivata ad uno stato di coma irreversibile.

Le strade di accesso al Casentino, principalmente sono quattro: la Consuma, il passo dei Mandrioli, lo Spino e la Strada Regionale 71. La Consuma è un passo di montagna e come tale è di  giustificata impercorribilità. Stesso dicasi per i Mandrioli ed in parte per lo Spino. Ma per il Casentinese autoctono, è la Strada di fondo valle l’arteria principale di scorrimento (e di giramento…). Molti nostri concittadini infatti lavorano al di là del “groppino”, ovvero da Rassina in giu, ed in quelle poche decine di chilometri che devono percorrere, si concentrano una serie di follie seconde solo, a mio modesto giudizio, solo alla famigerata Salerno-Reggio Calabria.

Questo maledetto serpente d’asfalto, ogni anno infatti inghiotte con le proprie fauci ore di lavoro perdute, ulcere gastriche post-incazzamento, centinaia di euro di bastardissime multe, e come se non bastasse, anche vite umane. E così, giornalmente, come novelli San Giorgio siamo costretti a combattere contro questo tremendo serpentone e contro le sue terribili armi. La più temibile arma del Serpentone Regionale 71 è il tremendo “Camion Prefabbricatorum”. Dotato di una lunga coda poco semovente e di una scarsissima inclinazione al trotto, esso se incontrato provoca grandiosi ingorghi, immense ulcere, travasi di bile, e talvolta code ininterrotte dal Corsalone a Ceciliano. Inoltre, è assai avvezzo allo “scodamento”, specialmente in località Calbenzano, dove spesso due o più di tali bestioni si danno appuntamento proprio sul ponticello sul fiume Talla, e per evitarsi a vicenda bartano travi e prefabbricatame vario nella linea di mezzeria. Un antidoto a questo malanno ci sarebbe, e si chiama “Ferrovia”. Peccato che sia scarsamente utilizzata. Il Serpentone Regionale 71 è dotato in oltre di numerose antenne, simili a infami padelle bianche col bordo rosso, chiamati “Limitatio di Velocitas”. Al centro di tali padellacce, vi sono riportati dei numeri, solo le decine, rigorosamente fino al numero “50″ (anche se imperano i “30″). Tali antenne, o cartelli, contribuirebbero all’intasamento della carreggiata se solo qualcuno rispettasse il limite imposto. Perché quando il limite imposto è assurdo, è anche assurdo pensare di rispettarlo (avete provato a fare i 30 all’ora nel dirittone di Calbenzano?). Se malauguratamente qualche tapino è costretto a rispettare il limite, magari perchè gli sono rimasti 3 punti sulla patente, esso sarà la ragione di feroci maledizioni (“vaffanculatio“) degli altri automobilisti costretti ad arrivare a destinazione dopo il tramonto. Quel che è peggio è che questi cartelli vengono subdolamente piazzati in posti strategici da alacri servitori per rimpinguare le casse dei Comuni ai quali appartengono i terreni sui quali il Serpentone stesso giace. Infatti essi sono la carota buttata in mezzo alla strada per attirare gli automobilisti verso la più terribile delle armi, che ha un nome ben preciso: “Autovelox”. Questo strumento è tanto ridicolo a vedersi (sembra un animalaccio malfatto, secco secco e con due occhi distanti) quanto tremendo al morso. Egli è per sua natura subdolo e carogna, e come tutti gli esseri infami sta sempre nascosto. Egli manifesta la propria presenza solo qualche settimana dopo l’incontro, spedendo a casa dello sfortunato una raccomandata con diverse centinaia di Euro di saluti. Le “tane” preferite dell’Autovelox sono: a Bibbiena in località La Nave, al Corsalone nella diritta di Fontechiara, a Rassina si può trovare all’inizio del cavalcavia (sparato da dietro un furgone civile civetta), all’incrocio per Chitignano o nella zona dello stadio (anche qui ben nascosto all’interno di auto civili), e anche nello spiazzo che conteneva una piccola casa cantoniera alla fine della diritta che si trova dopo Villarosa (tra il distributore e l’allevamento di struzzi). A Subbiano ancora meglio, le “tane” sono disseminate in tutto il tratto che attraversa il centro abitato (dalla famigerata casa cantoniera sulla sinistra andando verso Arezzo, allo spiazzo privato qualche decina di metri dopo, fino al marciapiede, lato destro, di fronte al distributore). Gran brutta bestia questo Autovelox, gran begli incassi per i Comuni…

Ma non è finita qui, per i martiri della SR71. A queste possenti armi si uniscono anche le maledizioni naturali. Si parte dalla onnipresente Punto grigia, dotata di proprietà invariantiva: infatti può essere farcita di suore, di Fiorentini o di ottantenni ma l’andamento è sempre lo stesso: ondulatorio, sinuoso, incerto, lento. Poi troviamo il semaforo di Ceciliano: vengono anche da fuori dell’Europa per vederlo, fotografarlo e cercare di capire a che diavolo serva. Pare che l’unica sua funzione sia quella di unire fisicamente Ceciliano con Castelnuovo di Subbiano (7km circa) in una unica allegra coda. Abbiamo ancora le Pande senza freccia (o meglio la freccia ce l’hanno, ma non viene mai messa quando girano), i “cellular-dipendenti“, biechi personaggi che se ne infischiano delle regole della strada e delle leggi della natura che vivono con il telefono cellulare attaccato all’orecchio, chiaccherando, smadonnando, sbraitando, cercando un foglietto nel cruscotto per prendere appunti: il tutto mentre ti arrivano contro ai 90 all’ora.

Per concludere, anche le Forze dell’Ordine danno una mano: dove sarà piazzato il posto di blocco? In un tratto di strada pericoloso e quindi da controllare attentamente o nel bel mezzo di un ingorgo già esistente, dove il fermare un veicolo a bordo strada significa bloccare tutto il traffico dell’Italia centrale da Mantova a Frosinone? La risposta è fin troppo facile.

Come fare quindi a sopravvivere alla strada di fondo valle? La risposta è più semplice di quanto sembra: non usarla. Per arrivare ad Arezzo sani e salvi, una volta arrivati a Rassina, girare verso Talla. Prendere la strada della “Zenna” che porta fino a Subbiano. Da qui, fare la vecchia strada che da Castelnuovo di Subbiano e Marcena porta a Ponte alla Chiassa. Girare verso Anghiari, e all’altezza della Chiassa Superiore, prendere le indicazioni per Tregozzano ed Arezzo. Esagerato dite? Da Poppi ad Arezzo si risparmiano 20 minuti di auto, ulcere gastriche, rischio di autovelox, nessun camion, nessuna coda chilometrica, nessun semaforo del menga: mica male per una trentina di chilometri!

“Economia: ultimi giorni per pagare la… (pausa imbarazzata).. AI-VI-EI”
(Leggasi: “Pagare l’IVA”, telegiornale TV privata toscana, Marzo 2005)

Veramente curioso, il Casentinese. Mi piace osservare il comportamento dei miei conterranei, si percepiscono molti aspetti della preparazione culturale o presunta tale degli abitanti della nostra vallata. E spesso, nell’ambiente di lavoro come nel tempo libero, sento pronunciare la fatidica frase: “e che ne so, è scritto in inglese”, anche davanti ad una targhetta con su scritto ON/OFF. Non voglio entrare in merito al fatto che da alcuni decenni la lingua inglese viene insegnata fin dalle scuole medie, quindi dovremmo avere assimilato qualcosina di più del banale YES e NO, ma quello che mi sorprende è che questi nostri conterranei non-anglofoni, poi compiono delle strepitose evoluzioni con inglesismi beceri e scimmiottati che farebbero morire di crepacuore più di un Accademico della Crusca! Dobbiamo ammetterlo, la nostra vallata è oramai una colonia degli Stati Uniti d’America, ed il mezzo di invasione non è stato il carrarmato (che essi usano sovente), ma i mezzi di comunicazione, che per compiacere il vincitore della seconda guerra mondiale, da sessant’anni ci propinano le peggiori oscenità, mondate dal fatto di essere rigorosamente Made in USA. Esagerato? Mica tanto. Una volta un impiegato di Poppi diceva: “Maria, domattina piglio la macchina grossa per andare al lavoro, devo portare i documenti per la riunione”. Oggi, no: Oggi il manager prende la station-wagon, perchè deve portare le slides da mostrare al meeting, per far vedere i reports ai partners… E se si raggiunge il target con il budget a disposizione, si ottiene anche una standing ovation.

E la moglie, prende la city car per andare a fare shopping al discount, comprare i prodotti visti negli spot, pagare con la credit card (non cash) per poi andare al wellness center, dove il trainer la attende per delle session di fitness, step, e body building…  E io pensavo che dovesse prendere la macchina per andare a fare la spesa e poi in palestra!

Alla sera,  si andava al bar o in birreria, si beveva una birra e ci si rimpinzava di salatini. E se si decideva di rimanere in casa, si guardava un po di televisione. Oggi, andiamo al pub o al wine bar, prendiamo un cocktail o un energy drink, e ci facciamo servire chips, nuts o popcorn. Altrimenti si rimane in casa, a vedere un talk-show in TV, condotto da un noto anchorman, con i soliti ospiti che parlano in slang romanesco.

I nostri ragazzi dovevano essere vestiti bene per non sfigurare all’ITIS ma oggi bisogna avere un look molto trendy, come quei modelli che si vedono nei magazine di fashion o nei book fotografici. E anche in pratomagno, non si fanno più delle passeggiate ma del trekking! Che pena. Ma all’oltraggio non c’è mai fine: alcuni riescono pure a massacrare in un colpo solo la lingua italiana e quella latina. Avete mai sentito pronunciare le parole latine mass-media nella maniera corretta, cioè esattamente come si scrive? No, naturalmente viene sempre pronunciata “mass mìdia” se va bene, e se va male anche “méss mìdia”, perchè si presume che tutte le parole che non finiscono per vocale siano state importate dagli americani col piano marshall. E quante volte ho avuto a che fare con gente che mi chiedeva un DVD chiamandolo DI-VI-DI. Non con la VU come l’alfabeto italiano impone, ma con la VI dell’alfabeto inglese…

Vogliamo poi parlare della fantasia dei negozianti?  E’ un proliferare di “Scarp House”, “Occhial Paradise”, “New Modes and borsetts”, “Vitis and bullons Market”…

Ammettiamolo, siamo proprio un popolo di Nando Moriconi, come lo strepitoso Alberto Sordi ha saputo fissare su pellicola: siamo clamorosamente ignoranti, ma con un mito in testa: Uozzammerica, auanasgheps, e bye bye!!!

P.S. Continuate a festeggiare Halloween, la festa delle zucche vuote: io lo farò quando gli americani festeggeranno il 25 Aprile!

Quando si verificano determinati eventi astronomici, narrano le leggende che la terra ne subisca gli effetti nefasti. Il passaggio di una cometa, l’allineamento dei pianeti, si dice che portino sconvolgimenti tellurici, sciagure e sfortune di qualsiasi foggia.

C’è una data del calendario nella quale sembra che il destino abbia voluto concentrare tutti i cataclismi, le comete e le sfortune del globo terracqueo. L’8 di Marzo è la data nella quale, dall’imbrunire, delle orde di donne sciamano per il territorio in maniera disordinata, tutte concentrate verso una meta: la trasgressione. In questa data, ogni donna anagraficamente compresa tra la pre-pubertà ed il post-mortem, sente l’istinto che le porta, almeno per una serata, ben lontano dal proprio partner (se ne hanno uno), o a far finta che non glie ne importi nulla di averne uno in caso di mancanza di esso. In questa data, dicevamo, le strade si riempiono di spose “scosse” (come si dice dei cavalli senza cavaliere al palio di Siena) dirette verso i luoghi di perdizione di turno. Ma procediamo con ordine. I primi esemplari di spose scosse si cominciano a vedere nei posti di ritrovo intorno alle 21. Sicuramente una ora tarda per andare a cena… Sai com’è, l’appuntamento era per le 20, ma le donne fin dai tempi di Eva si portano nel loro bagaglio genetico un’oretta di ritardo (alcuni vangeli apocrifi riportano che anche Nostro Signore, dopo l’estrapolazione della costola ad Adamo, dovette aspettare diverse decine di minuti per ottenere la donna: infatti era indecisa sulla borsetta da abbinare alla foglia di fico…).

Una volta raggruppate le truppe con qualche decina di telefonate (perchè qualcuna aveva capito: “in piazza a Soci sotto il cinema”, altre “in piazza a Poppi, per la via del Cinema”, altre “Nella piazza dove fanno il cinema”, e vengono ritrovate a girovagare a Cinecittà…), via, si parte per la meta! Prima tappa il ristorante, dove si consumerà la prima parte del dramma. Durante quella cena, aspiranti modelle longilinee ed allampanate, abbonate ai frullati di carote magre devitaminizzate e sedani “light” crudi, vengono viste sbranare interi quarti di bue arrosto, qualcuna con gli occhi iniettati di sangue e qualche setola che gli spunta da dietro l’orecchia…

Alla fine del baccanale, dopo aver polverizzato tonnellate di kilocalorie e massacrato moralmente mariti, fidanzati ed aspiranti tali, l’orda di lanzichenecche sciama come uno stormo di cavallette verso il locale della perdizione. E se è vero et sacrosanto che donna al volante pericolo costante, la pericolosità delle strade, quella sera, è pari solo ad una passeggiata per le strade di Chernobyl quando piove… Il culmine della serata, si ha all’interno della discoteca prescelta: una vale l’altra, tanto tutte propongono lo stesso spettacolo di finti brasiliani (di Campobasso) tarchiatelli ipervitaminizzati in perizomi leopardati dai nomi improponibili: “Osmannoro Muscle Man”, “Hot Certomondo Night Stars” e così via… E qui, nonne, mamme e nipoti, rischiando l’extrasistole si buttano ai piedi del palco dove gli smutandati agitano le natiche glabre, invasate per la vista della ciccia e per i fumi del Galestro: ecce donna! Stimate avvocatesse, luminari cardiochirurghe, dottoresse plurilaureate finiscono ignobilmente in mezzo ad una pista, “zerbinandosi” ed umiliandosi fra un “sia-a-mo i watussi, gli altissimi neeeegri”, ed un “brigitte bardò bardò”, avventandosi come iene sulla carogna per accaparrarsi le camicie graveolente dei perizomati. Quando lo spettacolo rasenta pericolosamente il codice penale, finalmente, l’alcool inizia a fare effetto, e le spose, quasi all’unisono, si spengono. Passano dalla euforia al sonno REM in una manciata di secondi. Allora mestamente, si dirigono al guardaroba, ritirano il lampadario che hanno portato come vestiario ed accessori e tornano a casa. Il giorno dopo, come se niente fosse, alle sette sono già in piedi a preparare il caffellatte.  In questo, perlomeno, sono da ammirare…

Eh, si. E’ proprio un bel dilemma per noi maschietti: l’otto di marzo, è bene starsene a nanna ed evitare il pericolo o corriamo il rischio, e ci avventuriamo in una giornata campale? Io, l’otto, non m’arzo!

Questo articolo è stato da me scritto nel mese di Settembre 2001 per la rivista “Casentino 2000”. A mente calda, a poche ore dall’attentato alle Twin Towers di New York. Riletto oggi, sembra che siano passati pochi giorni….

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento
Salvatore Quasimodo

E’ facile, in certi momenti dire: “l’avevo detto”. E’ più difficile, in momenti storici come questo che stiamo vivendo, sentirsi degli esseri umani. Davanti a certi atti, davanti alla storia cambiata per sempre dalla follia di pochi esseri, definiti umani solo per la loro appartenenza a tale razza, viene quasi da invidiare il comportamento degli animali. Loro sono guidati dall’istinto, dall’intuito, e non hanno bisogno bisogno di alibi né di scappatoie morali. Sto scrivendo queste poche righe controvoglia, cercando di fermare sulla carta qualcosa di quello che mi passa per la mente in questi momenti. New York è dappertutto: la vediamo dalle televisioni, le radio raccontano l’orrore, si mettono da parte i giornali per farli leggere un giorno ai nostri figli. Si pensa che non sia vero, che sia tutto un incubo, e che domani la

Il secondo aereo centra la torre

sveglia ci riporti alla normalità di un mondo brutto, si, ma non come quello nel quale ci siamo ritrovati da questo martedì di Settembre. Tutto si mescola dentro. Le immagini delle fiamme, le persone che cadono dal centesimo piano, si fondono con i ricordi dei libri e delle poesie studiati a scuola, scritti per avvenimenti del passato che mai ci saremmo pensati di dover rivivere. Come possiamo cantare noi oggi, parafrasando Quasimodo, con migliaia di morti abbandonati sulla piazza, con le madri che cercano il proprio figlio fra le macerie? Come sarà il domani? Cosa potrà accadere ancora?

Cosa proveremo riascoltando Giovanni Lindo Ferretti:

Annus horribilis, in decade malefica,
decade malefica in stolto secolo,
secolo osceno e pavido,
grondante sangue e vacuo di promesse.

Il secolo appena passato è stato chiamato il secolo delle guerre. Quello che ci aspetta forse sarà il secolo del sangue. I campi di battaglia si sono spostati. Non più tronfi generali a spostar bandierine su una carta geografica. Oggi le guerre sono combattute da singoli. I mandanti spesso non si conoscono neanche, ma i loro soldati sono quotidianamente all’opera. Sparando sulla folla al mercato, imbottendosi di esplosivo e facendo saltare in aria un autobus in nome di Allah, cristiani protestanti che tirano pietre e bombe molotov contro gli scolari cristiani anch’essi ma cattolici, colpevoli di vivere in una protestantissima ed europeissima nazione occidentale, oppure dirottando quattro aerei di linea e facendoli cadere sopra centomila persone. In questi giorni si parla di guerra. Non credo che si arrivi a tanto. Lo spero, perlomeno. Perché la Guerra, quella con la “G” maiuscola ha delle regole, dei nemici ben individuabili, un proprio codice, l’intrinseco rispetto del nemico. Mentre le guerre moderne non conoscono nulla di tutto ciò. Le parole d’ordine sono: morte, sterminio, annientamento a tutti i costi e con qualsiasi mezzo.

Lacrime di eroe...

La rabbia è il sentimento col quale si apre questo ventunesimo secolo. La rabbia del folle che uccide, e la rabbia di chi piange le vittime. Noi oggi siamo fratelli delle migliaia di persone uccise, ed il nostro sentimento prevalente è la rabbia. Non nascondiamoci dietro alle solite facciate: il perdono e la comprensione sono cazzate, sono pure invenzioni che fanno solo audience in TV. Nessuna anima può essere tanto alta da poter pensare di perdonare chi ha commesso certi atti. Io provo rabbia verso quei quaranta pazzi. Non mi nascondo dietro a maschere insulse. Quei tre minuti di silenzio, quando tutto il mondo si è fermato per rendere omaggio alle vittime, sono stati i tre minuti più terribili della mia vita. E provavo rabbia, non di certo voglia di perdonare. Ma tutta la rabbia che provavo e che provo tuttora mi istiga a cercare una soluzione per far si che certe cose non possano più succedere. Non c’è volontà di annientamento nella mia rabbia. C’è volontà di capire perché sia stato possibile che certe cose siano accadute.

I popoli hanno il dovere di cercare di adoperarsi per evitare certe tragedie, seguendo nient’altro che il proprio istinto. Proprio come gli animali. Lasciamo da parte gli stereotipi, i pregiudizi, gli odii, i dogmi religiosi ed impariamo a ragionare seguendo l’esperienza e l’istinto. Impariamo a comprendere il mondo che ci circonda. Parliamo l’uno con l’altro. Facciamoci delle opinioni e confrontiamole, al massimo ci potranno dare dei coglioni. Nella nostra personale sfida contro l’orrore, Il ragionamento dovrà essere la nostra tattica, il dialogo la nostra arma, il dolore la motivazione. Gli assassini sono dei singoli che riescono a compiere atti enormi nella loro atrocità. Ognuno di noi, da solo, può cercare di dare un contributo per far si che nulla di quello che è accaduto si ripeta. E sarà altrettanto enorme il risultato. In questo modo, i governanti non avranno più la necessità di dichiarare guerre, con la “g” maiuscola o minuscola.


Il lungo serpente multicolore di utilitarie oberate da abnormi carichi fin sopra al tettino rovente, si snoda come ogni anno dall’italico e neo-mediasettico entroterra e attraversando impervie corsie di asfalto perlopiù sconnesso, ancestrali cantieri aperti da tempo immemorabile e spesso tramandati di padre in figlio, affrontando insidie terrene (fabbisogni corporali del citto piccino) ed ultraterrene, arriva finalmente alla agognata località balneare, dove finalmente dar pace e sollievo a spirto e membra. Eh si, perché notoriamente l’Italico Genio, lui che per la bellezza di 335 giorni si è sorbito qualcosa come 1936 ore di lavoro vessatorio (virgola ventisette, direbbe qualcuno…), 5360 ore di moglie petulante e francamente anche un po’ rompicoglioni, 2680 ore di sòcera, il che è tutto dire, 77,5 ore di partite in televisione della propria squadra, fra campionato coppe ed insulsi tornei cavallereschi vari (comprensivi di tempi di recupero), senza che questa abbia cavato un ragno da un buco nonostante la milionata spesa per mettere su la parabola, le spade di Damocle del mutuo, l’assicurazione della Punto, le rate per la suddetta utilitaria (e un siamo neanche alla metà), la luce, il telefono, il gàsse, la figliola che torna alle cinque da ballare tutti i sabati, ebbene, egli, l’italico genio sente la necessità fisiologica di un supplemento di Golgota, e combatte fino allo strenuo delle forze per raggiungere il proprio masochistico scopo.

Eccolo quindi la mattina che si autoflagella con alzatacce feroci ad orari improponibili anche per un frate cercatore per il nobile fine di effettuare, da cittadino modello con tanto di tessera dell’Aci, la partenza intelligente. Esattamente come gli altri quaranta milioni di suoi connazionali che hanno messo la sveglia alla

Ma come si sta bene, non c'è quasi nessuno...

stessa ora per lo stesso scopo, con la conseguenza di essere risucchiati nell’ingorgo laocoontico fin dallo “stop” in fondo al vialetto di casa. Una volta arrivati all’autostrada, nasce il problema del carico. Infatti nel tettino della Punto sono state stipate masserizie, derrate e ciarpame vario, dal peso che stroncherebbe un carrarmato ed assai ostili verso i legacci elastici che dovrebbero contenerle in masse più o meno parallelepipediformi, ma esse, obbedienti alle leggi della gravità tentano in ogni modo di raggiungere l’asfalto. Lettini pieghevoli in ghisa forgiata, ombrelloni modello circo Orfei, poltrone massaggianti per le cervicali della nonna, fornelli a gas con scorta di bombole a seguire, cassettone di camera in noce massello e piano in marmo delle apuane (ricordo della nonna, bònanima) zeppo di mutandame, calzeria e camiciolame, il ficus di due metri che la donna non può lasciare a casa che va annaffiato tutti i giorni, parinosennòsesecca, la Vespa 125 “primavera” verde ramarro col portapacchi cromato che pare ancora nòvo, la bicicletta dei pokemon dei bimbi, le immancabili valigie fosforescenti del mercatone di varie fogge e metrature, ondeggiano pericolosamente al di sopra della vettura, provocando una certa apprensione nel guidatore e ancor di più nelle vetture che tentano, a loro rischio e pericolo, di superarle.

Così fra centinaia di chilometri di asfalto rovente, di finestrini tenuti su perché 1) la Punto l’aria condizionata non ce l’ha (scelte tecniche del costruttore: o Zidane o l’aria condizionata…) 2) la gentil pulzella i finestrini li

La vettura per eccellenza dell'italico genio: la PUNTO GRIGIA!

vuole non solo chiusi, ma sigillati col bostik perché si piglia il vento poi viene il mal di gola, meglio patire i 76 gradi centigradi, che la sofferenza nobilita l’animo, collisioni sfiorate con immensi mammuth gommati pluricassonati targati Caserta con veri e propri altari posti su nicchie absidali illuminate con luci psichedeliche da discoteca accanto alla cabina di guida, con ivi incastonati PadriPii veglianti, SanteMadri preganti, posters di papi da Leone VII in poi, clamorosi inchiodoni alla vista di qualsiasi autovettura ferma al bordo della strada (timore da forze dell’ordine è la diagnosi), ore e ore di “dammitrepparolesolecuoreamore” sparate dalla cuffia della citta piccina a volumi aeroportuali, suocere petulanti e sventolanti “perché in questa macchina ce se more dar cardo”, l’Italico Genio giunge, dopo svariati giri della lancetta piccina alla pensione “Da Ciro e Carmela”, con comodi cameroni multifamiliari modello hangar militare, aria condizonata (se si riesce ad aprire la finestra, incastrata dal ‘56), piscina (palude a 50 metri dall’entrata), vista mare(poster di Capri nell’atrio). Ma l’importante è esserci, come disse il sindaco di Hiroshima nel ’45. Che la festa abbia inizio! Abbandonato lo scarpone di cuoio d’ordinanza e il calzino di lana, l’Italico Genio finalmente mostra agli alluci uno squarcio di mondo ma solo per pochi attimi, perché è d’uopo non abusare del sole e quindi via, calzino mistolana (verde) e sandalo rigorosamente aperto (fresco).

La camiciola bianca del ’74 alla Alberto Sordi e il pantalone corto (pietosa imitazione del bermuda) ritagliato dalla moglie da un paio di calzoni di velluto marrone completano l’improbabile vestiario. Il momento saliente dell’essere in vacanza è l’iniziazione alla spiaggia. Come ogni anno, l’Italico Genio si precipita in spiaggia con l’intenzione di prendere la miglior tintarella possibile per far crepare d’invidia il vicinato. Per questo si unge con creme pre-sole, pre-protezione, protezione antiUVA, antiozono, antisalsedine, antipolivinilperossidoiperborati (hai visto mai, con tutti gli stranieri che c’è in giro), per finire poi con le creme post-sole, post-protezione, emollienti, tonificanti, rinfrescanti, rassodanti, esfolianti (alzi la mano chi sa che cosa significa), corroboranti, depauperanti, ottovolanti. La tecnica dell’Italico Genio è semplice: alle nove in punto sotto l’ombrellone, che assieme a due sdraio per quindici giorni d’Agosto costano come lo 0,3% del Nasdaq. La posizione iniziale è quella denominata “Nazareno”: braccia larghe e mani stese, gambe unite, testa leggermente reclinata. Tale posizione viene mantenuta fino alle 11, undici e dieci al massimo. Poi si passa alla posizione “Sindone carpiata rovesciata”, ovvero con un tuffo olimpionico si tuffa sull’asciugamano rovente, pancia in giù, braccia e gambe distese, faccia compressa nella sabbia. Con tutti i liquami bituminosi cosparsi sul corpo, zone dell’asciugamano si impregnano ed assumono una colorazione antropomorfa che si può paragonare al sacro lenzuolo. A metà della cottura, normalmente si hanno le visioni. Ventenni gioconde scorrazzanti con la quarta di reggiseno ed altrettanto tonnellaggio di mutanda mettono a seria prova le malconce coronarie dell’Italico Genio ed ancor di più le proprie convinzioni etico-religiose inculcate a scudisciate dalle Orsoline cinquantanni prima, quando le ventenni non le avevano ancora inventate. Poi, fra i “babbomecomprilacocacola”, le girandole di collanine, magliette col coccodrillo artefatto, occhiali di colori che avrebbero infastidito Andy Wharol, cittini che sventolano turbini di sabbia ovunque intorno nell’indifferenza dei genitori, le gazzette dello sport, si arriva all’una, quando scatta l’ora “X”. E via quindi, con l’arrotolar di asciugamani che è giunta l’ora del desco. Carovane di novelli beduini percorrono le impercettibili dune di quell’inesistente deserto di sabbia per giungere all’agognata tavola. Quantità ignobili di carboidrati serviti da Carmela in persona, vengono uccisi e fagocitati da stomaci da altoforno, conditi da improbabili sughi colloidali in cui navigano molti “potrebbe” (potrebbe essere pomodoro, potrebbe essere carne…) conditi con quantità industriali di olio esausto delle corriere, e composti parmigian-polimerici grattati sopra in abbondanza. Zuppe di pesce fresche fresche perché appena reduci dal banco frigo della Còppe, composti poliuretanici ben guarniti serviti a mò di dolce, caffè dal colore ed aroma sospetto e poi via, verso il letto, perché se un ci si riposa in vacanza… Poi alle 15 si ripete il rito ciclico: crogiolatura in spiaggia fino alle 19 in punto, frugale pasto alle 19:30 (9600 calorie lasciate ignobilmente sul campo). Ma è la sera che l’Italico Genio da il meglio di se. Dopo aver digerito le derrate alimentari di quell’olocausto chiamato cena grazie ad un limoncello fatto in casa (grappa del discount + Last al limone), si scatena la vita. Reindossato l’immancabile compagno mistolana (verde) sotto al sandalo, via, per il corso che è tutta vita! Ogni località balneare ha il proprio corso. La via centrale del paese, che in inverno solo pochi ne teorizzano l’esistenza, diventa un brilluccicar di vetrine, un florilegio di tavolini all’aperto, un’ epidemia di scaffali con libri sui tarocchi, intere pareti vengono affisse con ciabatte gommose in esposizione, i gelatai arrivano col carrello della mercanzia fino alla linea di mezzeria oramai, senza più scopo, e curiosi manufatti ottenuti incollando quantità considerevoli di resti di cacciucco, cozze ed arselle vengono mostrati con ammiccanti messaggi: “Saluti da…”, “Tanti saluti da…”, “Salutoni da…”. L’Italico Genio si sente orgogliosamente un’Indiana Jones: conosce alla perfezione ogni angolo della cittadina grazie alla quarantennale frequentazione degli stessi luoghi, e guida con piglio sicuro il resto della famiglia verso le mete desiderate.

Tipi da spiaggia

Il gelato si piglia al chiosco dopo la pineta prima del bagno cinquantasette, esclama, riscuotendo gli sguardi d’orgoglio dei figli che non sapevano di avere un padre cosmopolita. E come sempre, nel tragitto casa-gelataio distante circa 600 metri, ci si sente come a casa. Nel senso che l’80 per cento delle persone che si incontrano sono Italici Genii del proprio paese, del proprio quartiere, del proprio condominio. Nel percorso di ritorno, saziati gli stomaci e ristorate le lingue col fresco cono bigusto (cinquemila per sedici grammi: costa più della cocaina) ci si dedica allo shopping. E così ogni giorno vengono portati a casa: “Curarsi con le erbe”, “Vita di Padre Pio”, “La Divina Commedia” (a casa ce ne sono undici copie ma il titolo l’hanno sentito nominare, vuol dire che è un bel libro e che va comprato), Crema nutriente post-dopo-anti-pro qualcosa alle vitamine dalla A alla ultima lettera dell’alfabeto cirillico incluso, in comodo flacone famiglia da 2 chili e sette con pratica maniglia per il trasporto ed un braccialetto gonfiabile in omaggio, ciabatte infradito con zeppa di trentasette centimetri sul livello del mare non per la figlia ma per la mamma, girocollo di gusci di lumachine con incastonato a mò di ciondolo un bassorilievo di Padre Pio (sempre lui), ricavato da un unico blocco di basalto del Sudafrica, palle di vetro con dentro figure non ben identificate ma che ricevono la neve (si proprio la neve) in testa se capovolte per il parentado che ha avuto la sfortuna di rimanere a casa. A tarda ora, spossato dai 38 gradi esalati fino a tarda notte dal cemento e dall’asfalto, con le proprie borse di acquisti (metà stipendio di un dirigente Fiat), l’Italico Genio fa rientro alla pensione dove si concederà una salutare dormita tra un tentativo e l’altro di schiacciare stormi di zanzare tigre dalla dimensione di una carota, sudando come Coppi sul Pordoi dal caldo da deserto africano, clacson dalla strada, urla di giovinastri che sono ancora in piedi dopo le undici di sera, discoteche regolari e quelle semoventi (Punto grigie pluricarenate e spoilerizzate, con impianti Hi-Fi a bordo ed amplificatori da far impallidire Radio Vaticana, sparanti “vuvvuvvumipiacitu” a volumi che travalicano il decibel per entrare nella scala Mercalli. Il giorno dopo, e quello dopo, e quello successivo, la storia si ripete. Ogni gesto viene inesorabilmente rivissuto nei quattordici giorni a seguire. Il quindicesimo giorno, egli si riposò. Infatti l’ultimo giorno è in genere trascorso dall’Italico Genio tra la Guardia Medica ed il Pronto Soccorso a causa delle ustioni di secondo e terzo grado riportate dalla maggioranza dei componenti il nucleo familiare, diarree del figliolo piccino, siringate di Voltaren per la nonna sennò un cammina più, test di gravidanza per la figliola (sopra i quindici anni è quasi d’obbligo).

Prima....

Alla fine del mese, la maggioranza degli Italici Genii riesce a tornare a

...e DOPO!

casa. Ricaricano la Punto di tutti i loro bagagli e si reimmettono nell’autostrada che li riporterà a casa. E’ stato bene, l’Italico Genio ne è convinto. Si sente proprio rilassato. E poi quest’anno si è speso anche meno dell’anno scorso (con i soldi buttati via poteva comprare una tenuta in Argentina, ma vuoi mettere la mucillagine di casa nostra?).

All’indomani, alle 5 di mattina la sveglia suonerà per permettere al nostro di essere in fabbrica alle sei in punto. E la vita trascorrerà come sempre: con la moglie rompicoglioni, la sòcera, la parabola, la luce, il gàsse, l’assicurazione della Punto…Ma mancano solo 11 mesi, e poi via, se torna al mare!

Questo mese ho poca voglia di scherzare. E’ stato commesso un delitto, e come in tutti i casi dove ci scappa il morto, il sentimento non può essere leggero. C’era una volta una realtà forte nel mio paese. Era qualcosa che andava oltre ad ogni pensiero o ideologia che una persona potesse avere. Come ogni comunità di persone, Bibbiena aveva una propria squadra di calcio, il simbolo dell’unità del paese. Alla domenica, verso le tre del pomeriggio non volava una mosca: centinaia di persone di ogni estrazione sociale, ricchi e poveri, dottori e pazienti, imprenditori ed operai erano li, metà nella tribuna coperta dello stadio del paese e l’altra metà nel prato, tutti con qualche cosa di rosso e blu per bandiera, e quando non ci s’aveva o non si poteva a causa dell’estrazione sociale o della moglie petulante, bastava il guancialino bicolore. Quanti gusci di lupini sono stati lasciati in quelle gradinate. Quante boccine triangolari della Vecchia Romagna dissolte in un attimo quando d’inverno si sedeva in quel cemento ghiacciato. Quante volte ci si bloccava il respiro nell’attesa dell’esito di una punizione,di un tiro che si abbassava “a palombella” verso la traversa del portiere avversario. Si berciava come matti, si sventolavano le bandiere, si tornava a casa senza voce. Era un sentimento comune l’amore per quella squadra. Nel bene e nel male Bibbiena e la Bibbienese erano una sola anima. Il campo dello stadio è ancora verde per il sudore ci hanno lasciato i ragazzi di Bibbiena che si battevano come leoni con quella maglietta addosso, per quella maglietta che avevano addosso i loro padri ed i loro nonni. Quella maglia rossoblu, indossata per la prima volta nel 1927.

Forte di tanto affetto, era stata spinta verso paradisi inimmaginabili nella nostra piccola e provinciale vallata. La Promozione, l’Eccellenza e incredibile a dirsi l’Interregionale. Ad un passo dai professionisti, l’ascesa si arrestò quasi per un eccesso di timore verso quel mondo che richiedeva moltissime (forse troppe) risorse. Ma la squadra si comportava comunque bene, partiva dal mezzo di una valle di provincia e sbaragliava blasonati squadroni di città capoluogo. La domenica, partivano colonne di auto per seguire la nostra squadra fuori provincia, in Emilia, nelle Marche.

Poi, come in ogni favola che si rispetti è arrivato l’orco cattivo. La nostra principessa, nel fiore della bellezza fu tradita. Come in una moderna versione della Mea, la nostra amata è stata rapita ad un passo dalle nozze. Ella fu catturata dall’ “Armata Brancaleone”, malnutrita, offesa, torturata, violentata nello spirito e lasciata agonizzare nei peggiori bassifondi. E così, il fiore di Bibbiena perse uno ad uno i propri petali. In pochi anni di sofferta e lenta agonia, con l’atroce consapevolezza di avvicinarsi alla morte, la nostra Bibbienese si è spenta dopo una violenta caduta dalla Prima alla Seconda Categoria. 

 Non credo che si debba provare rancore o odio verso chi ha perpetuato questo scempio. In fondo, era solo una Armata Brancaleone, un insieme di maldestri cavalieri sbrindellati senza ronzino né bandiera… La cosa atroce, però, che tutti noi Bibbienesi non gli perdoneremo mai è lo scempio che è stato fatto del cadavere della nostra squadra. Neanche una degna sepoltura le è stata riservata. Anche i Cavalieri nel buio Medioevo, solevano seppellire con tutti gli onori il proprio destriero nel momento della morte, in quanto parte integrante e veicolo dello splendore del Cavaliere stesso. Ma il cadavere della povera Bibbienese, è stato squartato e svenduto a tranci al miglior offerente, le sue maglie buttate nel sacco dei ciechi, la sua anima gettata nel sottoscala.

 Chissà che fine faranno quei gagliardetti delle squadre di calcio che dal 1927 hanno costruito la storia della squadra. Forse quelli più bellini come colore verranno portati a casa per farci giocare i nipoti. Gli altri, diventeranno forse cenci da spolverare. Che tristezza. Che pena. Che mal di cuore.  Alla fine dell’estate, quando rientreremo dalle ferie, ritroveremo i componenti dell’Armata Brancaleone al loro posto al bar, tranquilli, con la coscienza a posto. Perché loro, la loro crociata l’hanno combattuta con coraggio: infatti agli avversari, a forza di musate, gli hanno slogato una mano…

Spero che le persone perbene di Bibbiena non dimentichino mai la nostra squadra. Le foto dei trionfi, gli articoli dei giornali, i caroselli di auto con le bandiere, devono rimanere affisse nelle pareti dei bar per sempre. Per i nostri nipoti, perché sappiano che nel nostro paese è esistita una grande squadra e per i nipoti dell’armata Brancaleone, quale persistente rimorso.

 Addio, Unione Polisportiva Bibbienese.

Recentemente, ripensando alle giornate della mia gioventù passate a trippa ritta nelle rive sassose della Steccaia e del Ponte Rosso, mi è tornato in mente il curioso pesciolino dalla testa particolarmente grossa, assiduo frequentatore dei ruscelli Casentinesi: il ghiozzo.

Proprio a causa delle spropositate dimensioni della testa del suddetto, l’appellativo ghiozzo, nel lessico locale è venuto ad indicare una persona particolarmente “dura nel comprendonio”, di scarsa intelligenza ed arguzia, poco incline alle novità, decisamente poco socievole e disinteressata a tutto. In poche parole: un ghiozzo… Come tutti sapranno, i ghiozzi (i pesci, intendo) vengono pescati non con la canna da pesca, ma con la classica forchettata sulla chiorba. La differenza col ghiozzo (quello umano), sta nel fatto che questi ultimi vengono pescati con la rete. Mi spiego meglio.

Che la tecnologia sia cosa ostica, è oramai risaputo. Se da qualche anno Internet, cioè la rete per eccellenza, ha condizionato pesantemente il modo di lavorare, di acquistare, di studiare e di socializzare di milioni di persone, esistono ancora delle sacche di popolazione che, complici i media (scommetto che avete letto mìdia…), quando sentono parlare di Internet si fanno il segno della croce. Provate ad ascoltare i dialoghi delle persone in piazza: “ho comprato il computer al mi figliolo: voleva internet…” e l’altro: “Eh, poverino, così giovane… e son disgrazie…”. Ma chi ha scatenato tutta questa valanga di disinformazione? Basta dare un’occhiata ai nostri Telegiornali (non lo fate, per carità era solo un modo di dire…) per rendersene conto. Solerti giornalisti (?) da sottoscala, abilissimi reporter dei tornei di ramino, intrepidi cronisti della bocciofila, promossi finalmente al commento di avvenimenti sociali rilevanti, non si sono lasciati scappare l’occasione di mostrare tutto il loro valore. Trovatisi a dover comprendere argomenti ben diversi dal tre di picche e dal piombo a girare, hanno semplicemente amalgamato argomenti incongrui tra di loro, un po’ per l’ignoranza genetica della quale soffrono ed un po’ per colpa della natura che li ha fatti così.

Così la nostra Internet è diventata il ghetto dove (secondo loro) sopravvivono bande di pedofili, pornografi, pervertiti ed altro maialame vario. Tra poco verranno a dirci che Internet l’ha portata gli Albanesi. Non solo: tutte quelle parole che hanno qualche attinenza o somiglianza con la tecnologia, o che comunque suona come moderna (virus, multimedia, memoria eccetera) viene forzata ed amalgamata con le altre fino a ricondurla ad Internet. Vi si fulmina una lampadina in casa? Le lampadine funzionano con l’elettricità, elettricità = elettronica, elettronica = computer, computer = Internet. Altri esempi lampanti? Titolo nel giornale: “Centrale elettrica in tilt a causa di un computer fuori uso. Pirati informatici hanno usato Internet per mettere KO la centrale” (magari era colpa di un topo che ha causato un corto circuito…). Affonda un peschereccio? Trovatelo voi il nesso (suggerimento: la parola Rete vi dice nulla?) e capirete come mai l’imbarcazione è andata a picco… il virus, internet eccetera. C’è ben poco da ridere…

Questi divulgatori ci hanno preso gusto a parlare di Internet, e la gente ci ha preso gusto a sentire quotidianamente le porno-notizie provenienti dalla rete. Bisognerebbe spiegare all’opinione pubblica che se c’è qualcuno con i neuroni fuori fase, non sono sicuramente gli utilizzatori della rete, ma i santoni che pontificano su di essa. Io uso Internet per lavoro quotidianamente e non mi sento più pervertito di quelle persone che vanno in edicola a comprare il giornale. In ambedue i luoghi se si rovista un po’ vi si possono trovare dei sudiciumi, ma non per questo ci si deve sentire in colpa se si entra in edicola… (“Oh, lo sai ir marito della Maria ieri l’hanno visto entrare in edicola…”  “Vai, lo sapevo… l’ho sempre detto che un mi garbava”). A mio giudizio in Italia manca la cultura della Cultura. I concetti “imparare”, “capire”, “comprendere” sono assolutamente distanti dagli interessi di gran parte degli Italiani. Si parla per sentito dire, e se una parola non finisce con la vocale allora è straniera di sicuro e ci si rifiuta non solo di comprenderla ma addirittura di leggerla. Internet è l’ennesima barriera che divide le persone con un minimo di futuro davanti a loro dagli individui mediocri. Noi, malati di perversione digitale sapremo usare le nuove tecnologie per migliorare noi stessi, il nostro modo di lavorare, di comunicare, di vivere, di ragionare. Gli altri, continueranno a guardare Paperissima Sprint.

Hanno la forza, potranno sottometterci.
Ma i processi sociali non si fermano

né con il crimine, né con la forza.
LA STORIA E’NOSTRA

E LA FANNO I POPOLI
(Salvador Allende, Santiago del Cile, 11/09/73)
 

 

Questo pomeriggio approfittando del bel tempo e della giornata festiva (ricorre infatti il quinto anniversario della liberazione d’Italia dai Bolscevici), ho deciso di portare mio figlio in campagna. Oramai, anche in Casentino la cementificazione ha raggiunto livelli tali che dobbiamo accontentarci dei nostri 20 metri quadri assegnati di verde, il resto è tutto un cantiere. Ho parcheggiato nel mio spazio riservato ed ho pagato con la mia tessera “Mediolanum Trasporti” . Siamo entrati nel nostro spazio verde, proprio vicino alla riva dell’Arno, e dopo aver salutato la Guardia Padana che vigila sulla nostra sicurezza abbiamo preso possesso della nostra panchina. Innanzitutto ho spento il mio telefonino “Mediaset Telecomunications”… almeno oggi non voglio essere disturbato. I bambini si godono la agognata libertà di correre nell’erba, dal cartellone “Mediolanum Vita” fino al chiosco di panini “Mediaset Ristoro”, con le loro tutine tutte uguali volute dal Premier, e tutto sembra così gioioso che sembra quasi di non vedere i cartelloni con la faccia del Premier stesso la in fondo, in mezzo al parcheggio, sempre più sorridente, giovanile e rassicurante. Non sembra neppure di stare a meno di un chilometro dalla recinzione del Campo di Contenimento Immigrati.

Trovatomi un posto all’ombra, ho approfittato per dare un’occhiata al giornale. Anche oggi, solo notizie confortanti. L’economia va, l’inflazione è sotto controllo,i reati sono in calo. Come ieri. Come l’altro ieri.

Non faccio in tempo a finire di leggere l’articolo che il mio campione torna alla panchina… è l’ora di fare i compiti, ed il suo computer da polso “Mediaset Multimedia” glie lo ha prontamente segnalato. Ci mettiamo sul tavolino e lui comincia a tirare fuori tutto il necessario dallo zainetto: il Computer da studio, le biro, i quaderni ed infine i Mondadori. Ricordo che qualche anno fa si chiamavano semplicemente “Libri”, ma il Comitato di Sorveglianza sul Nuovo Ordinamento Sociale ha imposto tale denominazione. “Sai, ” gli spiego, “quando ero piccolo io il computerino da studio non ce l’avevamo…” “Davvero? E come facevate a calcolare gli ammortamenti, gli interessi passivi e le medie mobili nei trend?” “Vedi, ai miei tempi non si studiavano certe cose alle scuole elementari. Si studiavano altre cose più importanti, come la Storia e la Geografia…” “Ma babbo, anche le studiamo. Sono materie facoltative ma te mi ci hai fatto iscrivere, non ti ricordi?”.

Ieri...

 

“Penso che sia arrivato il momento di fare due chiacchiere, noi due. Tu non ti ricordi perché eri piccolo, ma fino a qualche anno fa le cose qui in Italia andavano diversamente. A scuola si andava senza l’uniforme, e si studiavano le materie necessarie per farti conoscere il mondo che ti circonda. Ti preparavano ad essere adulto, responsabile. Poi la riforma scolastica del Ministro Buttiglione ha spazzato via tutto quanto. I libri di storia sono stati riscritti ed interi secoli sono stati abbandonati. Esistevano le scuole pubbliche: tutti i bambini avevano la possibilità di andare a scuola, i figli degli operai assieme ai figli dei dottori. Poi è stata liberalizzata anche la scuola ed oggi dobbiamo solo scegliere in quale delle scuole private iscrivere i nostri figli. Una volta un lavoratore dopo aver lavorato per decenni poteva finalmente ricevere dallo stato un vitalizio che gli permetteva di vivere degnamente per il resto della sua vita.

...ed oggi... Trovare le differenze!

Oggi solo chi ha stipulato un contratto con “Mediolanum Anni Futuri” può sperare di andare in pensione. Pensa: quando guardavamo la televisione, potevamo addirittura scegliere quale canale guardare. Esistevano decine e decine di emittenti televisive, anche locali che trasmettevano di tutto. Erano anche un pò noiose, ma era bello avere la libertà di scegliere. Anche i giornali erano decine e decine: ognuno era libero di acquistare e leggere quello che più gli piaceva. Non come oggi, che l’unico quotidiano legalmente edito in italia arriva per posta elettronica ogni mattina a tutte le famiglie.  Non esistevano ancora i Campi di Contenimento Immigrati, voluti dal Ministro dell’Interno Bossi, quelle distese di baracche di legno col filo spinato intorno dove vengono rinchiusi i cittadini extraitaliani scoperti senza permesso di soggiorno. E chi commetteva un reato veniva processato e poi, se riconosciuto colpevole, messo in prigione, invece di essere immediatamente dipinto di vernice blu indelebile come ha voluto il Ministro di Grazia e Giustizia Dell’Utri. C’erano due corpi di forze dell’ordine: Carabinieri e Polizia. Poi sono stati disciolti ed il loro compito è stato affidato alle Guardie Padane al nord ed a Cosa Nostra al sud. E sono iniziati i soprusi, le perquisizioni illecite, le manganellate e le purghe con l’olio di ricino. Ricordo che il Casentino era uno dei luoghi più belli del mondo: castelli, pievi medievali, campi coltivati, boschi, ruscelli. Ci si prendeva in giro tra abitanti dei vari Comuni per antiche rivalità ma si era una sola famiglia. Da tutto il mondo venivano a godere del fresco delle nostre foreste. Prima che le frontiere venissero chiuse dal Ministero degli Interni, e prima che la Edilnord iniziasse a costruire tutti i palazzi, i centri commerciali e direzionali che oggi ci circondano.

 Immagina un mondo in cui ognuno era libero di svegliarsi, lavorare, pensare, amare, correre, vivere come e quanto voleva. Un paese senza soprusi, dove ogni cittadino poteva varcare ogni confine ed essere rispettato, un paese dove un giovane aveva la speranza di trovare subito il lavoro adatto a lui, dove si poteva aver fiducia del proprio futuro, un paese dove poter sognare, dove poter dire di no….”

Guardai mio figlio. Stava pensando affascinato a questo mondo immaginario.

Poi mi guardò e mi disse: “Certo sei bravo a raccontare le favole. Me ne racconti un’altra?”