In memoria di LICIO NENCETTI, (31/03/1926 – 26/05/1944)

Licio Nencetti aveva 18 anni quando il 26 maggio del 1944 si trovò davanti i fucili del plotone fascista di esecuzione. Si reggeva a malapena in piedi, piagato in ogni parte del corpo, il viso sfigurato. La cattura e il carcere non avevano piegato la sua determinazione di non parlare, di non dire una parola sui compagni in cambio della libertà promessa. Glielo chiedono tante volte: se dici qualche nome, e dei comandanti partigiani dove si trovano, sei salvo. Ma Licio non cede. Qualche mese prima aveva scritto alla madre che era necessario il suo impegno tra i partigiani “per difendere l’idea di mio padre, che è sempre viva in me e per ridare ancora una volta l’onore alla mia bella Patria“.
Di fronte ai fucili puntati Licio trova la forza, l’ultima, di ergersi dritto, guardare le colline della Valdichiana che lo avevano visto combattere a fondo e gridare “Bella è la morte per l’onore della patria“. Di fronte a tanta fierezza – testimonia la motivazione per la concessione della ricompensa al valore – i fascisti del plotone esitano. Licio è una maschera di sangue, molte ossa rotte, gli occhi pesti, ma si sforza di guardare fisso in avanti. Preso da furia isterica, il comandante del plotone corre davanti a Licio e scarica la rivoltella alla testa, fino all’ultimo colpo. Ma nessun uomo del plotone fascista si affiancò a lui.
Chissà cosa passava, in quei momenti così unici, per la testa di quei fascisti, soldati di Mussolini, chiamati a sparare ad un altro italiano, così fiero delle sue idee, così impavido, così sicuro di morire per un ideale patriottico che quello stesso ufficiale aveva loro detto che i “banditi“, i “ribelli“, i partigiani assolutamente non potevano avere. Licio voleva “muoversi”. Non tollerava la inerzia, l’attesa; voleva, come scrisse alla madre, “combattere per un’idea leale e giusta“. Si arruolò nella 23ª brigata Pio Borri, diventandone in poco tempo uno dei componenti più decisi e capaci
(Fonte: Museo virtuale dell’antifascismo e della Resistenza della Provincia di Arezzo)

Nella motivazione per l’assegnazione della Medaglia d’argento al Valor Militare si legge:
«Giovane diciottenne animato dai più elevati sentimenti patriottici, fin dall’inizio partecipava attivamente al movimento di liberazione, organizzando una agguerrita formazione armata, alla testa della quale, con indomito coraggio e notevole perizia, svolgeva numerose e difficili operazioni di guerra contro il nemico, nel corso delle quali viene anche ferito. Catturato in una imboscata e sottoposto a snervante interrogatorio e ad atroci torture, nulla di utile rivela ai suoi aguzzini che lo condannano a morte. Il suo contegno davanti al plotone di esecuzione è talmente fiero e sublime che i componenti di questo, all’ordine di “fuoco!” non hanno il coraggio di sparare contro di lui. Soltanto il comandante, sparandogli in bocca con la pistola, riuscirà a far tacere la sua voce fino all’ultimo inneggiante alla libertà della Patria.»

 

Un uomo, ricoverato in manicomio fin dall’età di 10 anni, passa gran parte del suo tempo ad incidere con una fibbia del panciotto, una parete dell’istituto nel quale è rinchiuso. E crea un graffito lungo 180 metri e alto 2, nel quale sono descritte e disegnate storie di astronavi, di allunaggi, di conquiste di paesi, formule, collegamenti telepatici, di razze spaziali “col naso a Y”, di armi tecnologiche, di virtù magiche dei metalli.
Non è la sceneggiatura di un film: è una storia vera.

La cosa che lascia stupefatti, osservando le foto dell’opera di Nannetti (o NANOF, o NOF, NOF4 come si firmava), è la “lucidità” di quello che scrive e che disegna. Pur non avendo potuto studiare, scrive con caratteri che ricordano quelli usati nelle formule alchemiche di 400 anni fa, disegna con precisione antenne, animali, parti meccaniche. Nella sua follia, così si presenta:

“Per sistema telepatico mi sono arrivate cose che paiono strane ma sono vere. Io sono un Astronautico Ingegnere Minerario nel sistema mentale. Questa è la mia Chiave Mineraria. Sono anche un Colonnello dell’Astronautica Mineraria Astrale e Terrestre”

Se si analizza quanto scritto, appare subito una estrema lucidità: si definisce un “astronauta”, cioè un “viaggiatore” del sistema mentale, ovvero del disagio di cui soffre. Il termine “Minerario” lascia capire che con la sua opera vuole “scavare” nella sua mente, e il concetto di “Chiave Mineraria” potrebbe far intendere che la sua opera è la “chiave” per capire il pensiero che Nannetti vuole esprimere.

Ma andiamo con ordine.

Oreste Fernando Nannetti nasce a Roma nel 1927 da Concetta Nannetti e da padre sconosciuto. Dopo le elementari, cominciate in un istituto privato, fu accolto, a soli sette anni, in un istituto di carità, dal quale, tre anni dopo, a soli dieci anni, fu trasferito in una struttura per minorati psichici. Per un lungo periodo fu ricoverato anche all’ospedale Forlanini di Roma per curare una grave forma di spondilite.

In questi anni non si hanno documentazioni relative alla sua vita fino al 1948 anno in cui viene emessa una sentenza di proscioglimento, a Roma, di Nannetti dall’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale per “vizio totale di mente”. Nel 1958 fu trasferito dall’Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà di Roma a quello di Volterra (lo stesso dove fu ospitato anche Dino Campana), dove l’anno successivo passò alla sezione giudiziaria Ferri (una struttura nella quale si arrivò sino a contenere 6.000 “indesiderabili” e nella quale morirono per “cure” migliaia di persone, dove venivano rinchiusi anche gli anarchici o coloro che avevano qualche sintomo di depressione, una struttura con venti lavandini e due water ogni duecento degenti), per scontare una condanna di due anni. Nel 1961 fu trasferito alla sezione civile Charcot, per poi tornare, tra il 1967 e il 1968, all’ex giudiziario Ferri, fino al suo trasferimento per dimissione all’Istituto Bianchi nel dicembre del 1973.

Durante il ricovero a Volterra, Nannetti ha realizzato un “libro graffito” realizzato nel muro del reparto Ferri. Lungo 180 metri per un’altezza media di due, inciso con fibbie di panciotto, parte della divisa del matto di Volterra. Il suo libro, in cui narra di una storia e di una geografia, di una chimica e di un’astronomia chiaramente parallele alla nostra, in cui periodicamente lui stesso appare. La grandiosità del suo discorso ci trasporta in una dimensione dell’immaginario nel suo ragionare di tecnologie, di pianeti, di eventi storici immaginari. Ma anche verso il meraviglioso, attraverso diagrammi quasi alchemici, in cui vengono associati metalli, figure geometriche, colori, numeri, creando una sorta di “scienza delle corrispondenze” che ci riporta agli albori della scienza occidentale, ma si fonde con le tecnologie contemporanee. In seguito realizzò un altro graffito sul passamano in cemento di una scala di 106 metri per 20 cm.

Negli anni dell’internamento scrisse diverse cartoline mai inviate a parenti immaginari. Qui compare la firma Nanof o Nof, talvolta Nof4 e dichiarazioni d’identità. Nannetti si definisce: colonnello astrale, ingegnere astronautico minerario, scassinatore nucleare. I testi di Nannetti raccontano di conquiste di stati immaginari da parete di altre nazioni immaginarie, di voli spaziali, di collegamenti telepatici, di personaggi fantastici, poeticamente descritti come alti, spinacei, naso ad Y, di armi ipertecnologiche, di misteriose combinazioni alchemiche, delle virtù magiche dei metalli, ecc. In seguito, fornito di carta e penna, produrrà circa 1.600 lavori.

Nannetti non aveva studiato, l’unica istruzione certamente documentata è quella dei primi anni delle scuole elementari, e forse l’unica esperienza culturalmente significativa da lui fatta era stata il lavorare come elettricista per il futurista Severini, impegnato nella realizzazione di un mosaico in un palazzo dell’EUR, il quartiere fascista di Roma negli anni ‘30 del ‘900.

Nannetti Oreste Fernando è morto a Volterra il 24 novembre 1994. Il graffito del Ferri è ormai in totale disfacimento. La balaustra è stata abbattuta. I lavori cartacei bruciati in quanto effetti personali dopo la morte di Nannetti, in assenza di parenti a cui inviarli. Fortunatamente erano stati in precedenza fotocopiati.

Nannetti scrive un capolavoro, le interpretazioni del suo immenso graffito, di quest’opera ciclopica sono le più svariate, quello che è certo è che Nannetti esiste attraverso i suoi graffiti ed i suoi scritti, avendo un’esistenza negata la afferma attraverso un atto artistico e di volontà insieme che fa salire i brividi. Documenta la violenza ed i crimini ai quali ha assistito con immagini di poetica crudeltà:

“10% deceduti per percosse magnetico-catodiche, 40% per malattie trasmesse, 50% per odio, mancanza di amore e affetto.”

Scrive Adolfo Fattori nei Quaderni d’altri tempi, ricordando le sue impressioni alla vista, nel 1994, del graffito ancora pressoché interamente visibile: “le fitte righe del testo di cui è composto, con i disegni e le illustrazioni che lo interrompono ogni tanto danno l’idea di un flusso ininterrotto di parole, di suoni, di immagini. Un’enciclopedia del mondo trattata quasi come dialogo interiore, e comunicata a questo stesso mondo con urgenza, magari disordine, comunque determinazione”. Ma è Lara Fremder, nello stesso numero monografico, che ci porta in direzione dell’interpretazione, vera o no che sia, della quale vogliamo abusare qui: “Forse è andata così, è andata che un uomo apparentemente senza storia cerchi di scriversene una e che per farlo scelga un muro, un grande muro, una superficie di 180 metri, l’intera facciata di un ospedale psichiatrico. E che cominci così a scrivere e a disegnare e a ordinare tutto dentro pagine graffiate con forza sulla parete”. E allora si giustifica il titolo, di questo contributo: Nannetti scrive per esistere per lasciare, certo, qualcosa, per rompere un muro, ma, primariamente graffia il muro per esistere. Racconta una storia, racconta ciò che vede (che si tratti di vista nel senso comune o della vista ulteriore), racconta, in fondo, se stesso.

Nannetti ha raggiunto lo scopo, in effetti, l’esistenza negata gli è stata riconsegnata, piano piano molti si stanno occupando di lui, del suo lavoro, della sua esistenza. Si è costruito un’identità che gli era stata negata dalla violenza dell’istituzione manicomiale (come non pensare a Foucault?). Il muro poi, la scelta, incredibile, di comporre un enorme opera in un muro, graffiandolo con arnesi di fortuna quali le fibbie del panciotto della divisa manicomiale, la fatica, la forza fisica che ci vuole, al di là delle intenzioni (gli sono state attribuite anche capacità di comunicazione con gli alieni) appare proprio come un’affermazione di identità “nonostante tutto”.

Un’identità peraltro rispettosa, ad un’urgenza così forte, corrisponde la delicatezza estrema, Nannetti alla domanda dei medici (che arrivò dopo circa dodici anni d’internamento) sul perché il suo graffito, in alcuni punti saliva e scendeva, come a formare delle onde, rispose che NOF4 non se la sentiva di chiedere agli altri pazienti di spostarsi dal muro dove si appoggiavano per farsi scaldare dal sole.

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