Un uomo, ricoverato in manicomio fin dall’età di 10 anni, passa gran parte del suo tempo ad incidere con una fibbia del panciotto, una parete dell’istituto nel quale è rinchiuso. E crea un graffito lungo 180 metri e alto 2, nel quale sono descritte e disegnate storie di astronavi, di allunaggi, di conquiste di paesi, formule, collegamenti telepatici, di razze spaziali “col naso a Y”, di armi tecnologiche, di virtù magiche dei metalli.
Non è la sceneggiatura di un film: è una storia vera.

La cosa che lascia stupefatti, osservando le foto dell’opera di Nannetti (o NANOF, o NOF, NOF4 come si firmava), è la “lucidità” di quello che scrive e che disegna. Pur non avendo potuto studiare, scrive con caratteri che ricordano quelli usati nelle formule alchemiche di 400 anni fa, disegna con precisione antenne, animali, parti meccaniche. Nella sua follia, così si presenta:

“Per sistema telepatico mi sono arrivate cose che paiono strane ma sono vere. Io sono un Astronautico Ingegnere Minerario nel sistema mentale. Questa è la mia Chiave Mineraria. Sono anche un Colonnello dell’Astronautica Mineraria Astrale e Terrestre”

Se si analizza quanto scritto, appare subito una estrema lucidità: si definisce un “astronauta”, cioè un “viaggiatore” del sistema mentale, ovvero del disagio di cui soffre. Il termine “Minerario” lascia capire che con la sua opera vuole “scavare” nella sua mente, e il concetto di “Chiave Mineraria” potrebbe far intendere che la sua opera è la “chiave” per capire il pensiero che Nannetti vuole esprimere.

Ma andiamo con ordine.

Oreste Fernando Nannetti nasce a Roma nel 1927 da Concetta Nannetti e da padre sconosciuto. Dopo le elementari, cominciate in un istituto privato, fu accolto, a soli sette anni, in un istituto di carità, dal quale, tre anni dopo, a soli dieci anni, fu trasferito in una struttura per minorati psichici. Per un lungo periodo fu ricoverato anche all’ospedale Forlanini di Roma per curare una grave forma di spondilite.

In questi anni non si hanno documentazioni relative alla sua vita fino al 1948 anno in cui viene emessa una sentenza di proscioglimento, a Roma, di Nannetti dall’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale per “vizio totale di mente”. Nel 1958 fu trasferito dall’Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà di Roma a quello di Volterra (lo stesso dove fu ospitato anche Dino Campana), dove l’anno successivo passò alla sezione giudiziaria Ferri (una struttura nella quale si arrivò sino a contenere 6.000 “indesiderabili” e nella quale morirono per “cure” migliaia di persone, dove venivano rinchiusi anche gli anarchici o coloro che avevano qualche sintomo di depressione, una struttura con venti lavandini e due water ogni duecento degenti), per scontare una condanna di due anni. Nel 1961 fu trasferito alla sezione civile Charcot, per poi tornare, tra il 1967 e il 1968, all’ex giudiziario Ferri, fino al suo trasferimento per dimissione all’Istituto Bianchi nel dicembre del 1973.

Durante il ricovero a Volterra, Nannetti ha realizzato un “libro graffito” realizzato nel muro del reparto Ferri. Lungo 180 metri per un’altezza media di due, inciso con fibbie di panciotto, parte della divisa del matto di Volterra. Il suo libro, in cui narra di una storia e di una geografia, di una chimica e di un’astronomia chiaramente parallele alla nostra, in cui periodicamente lui stesso appare. La grandiosità del suo discorso ci trasporta in una dimensione dell’immaginario nel suo ragionare di tecnologie, di pianeti, di eventi storici immaginari. Ma anche verso il meraviglioso, attraverso diagrammi quasi alchemici, in cui vengono associati metalli, figure geometriche, colori, numeri, creando una sorta di “scienza delle corrispondenze” che ci riporta agli albori della scienza occidentale, ma si fonde con le tecnologie contemporanee. In seguito realizzò un altro graffito sul passamano in cemento di una scala di 106 metri per 20 cm.

Negli anni dell’internamento scrisse diverse cartoline mai inviate a parenti immaginari. Qui compare la firma Nanof o Nof, talvolta Nof4 e dichiarazioni d’identità. Nannetti si definisce: colonnello astrale, ingegnere astronautico minerario, scassinatore nucleare. I testi di Nannetti raccontano di conquiste di stati immaginari da parete di altre nazioni immaginarie, di voli spaziali, di collegamenti telepatici, di personaggi fantastici, poeticamente descritti come alti, spinacei, naso ad Y, di armi ipertecnologiche, di misteriose combinazioni alchemiche, delle virtù magiche dei metalli, ecc. In seguito, fornito di carta e penna, produrrà circa 1.600 lavori.

Nannetti non aveva studiato, l’unica istruzione certamente documentata è quella dei primi anni delle scuole elementari, e forse l’unica esperienza culturalmente significativa da lui fatta era stata il lavorare come elettricista per il futurista Severini, impegnato nella realizzazione di un mosaico in un palazzo dell’EUR, il quartiere fascista di Roma negli anni ‘30 del ‘900.

Nannetti Oreste Fernando è morto a Volterra il 24 novembre 1994. Il graffito del Ferri è ormai in totale disfacimento. La balaustra è stata abbattuta. I lavori cartacei bruciati in quanto effetti personali dopo la morte di Nannetti, in assenza di parenti a cui inviarli. Fortunatamente erano stati in precedenza fotocopiati.

Nannetti scrive un capolavoro, le interpretazioni del suo immenso graffito, di quest’opera ciclopica sono le più svariate, quello che è certo è che Nannetti esiste attraverso i suoi graffiti ed i suoi scritti, avendo un’esistenza negata la afferma attraverso un atto artistico e di volontà insieme che fa salire i brividi. Documenta la violenza ed i crimini ai quali ha assistito con immagini di poetica crudeltà:

“10% deceduti per percosse magnetico-catodiche, 40% per malattie trasmesse, 50% per odio, mancanza di amore e affetto.”

Scrive Adolfo Fattori nei Quaderni d’altri tempi, ricordando le sue impressioni alla vista, nel 1994, del graffito ancora pressoché interamente visibile: “le fitte righe del testo di cui è composto, con i disegni e le illustrazioni che lo interrompono ogni tanto danno l’idea di un flusso ininterrotto di parole, di suoni, di immagini. Un’enciclopedia del mondo trattata quasi come dialogo interiore, e comunicata a questo stesso mondo con urgenza, magari disordine, comunque determinazione”. Ma è Lara Fremder, nello stesso numero monografico, che ci porta in direzione dell’interpretazione, vera o no che sia, della quale vogliamo abusare qui: “Forse è andata così, è andata che un uomo apparentemente senza storia cerchi di scriversene una e che per farlo scelga un muro, un grande muro, una superficie di 180 metri, l’intera facciata di un ospedale psichiatrico. E che cominci così a scrivere e a disegnare e a ordinare tutto dentro pagine graffiate con forza sulla parete”. E allora si giustifica il titolo, di questo contributo: Nannetti scrive per esistere per lasciare, certo, qualcosa, per rompere un muro, ma, primariamente graffia il muro per esistere. Racconta una storia, racconta ciò che vede (che si tratti di vista nel senso comune o della vista ulteriore), racconta, in fondo, se stesso.

Nannetti ha raggiunto lo scopo, in effetti, l’esistenza negata gli è stata riconsegnata, piano piano molti si stanno occupando di lui, del suo lavoro, della sua esistenza. Si è costruito un’identità che gli era stata negata dalla violenza dell’istituzione manicomiale (come non pensare a Foucault?). Il muro poi, la scelta, incredibile, di comporre un enorme opera in un muro, graffiandolo con arnesi di fortuna quali le fibbie del panciotto della divisa manicomiale, la fatica, la forza fisica che ci vuole, al di là delle intenzioni (gli sono state attribuite anche capacità di comunicazione con gli alieni) appare proprio come un’affermazione di identità “nonostante tutto”.

Un’identità peraltro rispettosa, ad un’urgenza così forte, corrisponde la delicatezza estrema, Nannetti alla domanda dei medici (che arrivò dopo circa dodici anni d’internamento) sul perché il suo graffito, in alcuni punti saliva e scendeva, come a formare delle onde, rispose che NOF4 non se la sentiva di chiedere agli altri pazienti di spostarsi dal muro dove si appoggiavano per farsi scaldare dal sole.

Le Immagini

I Video

27/01 – Appunti per il Giorno della Memoria

Io ci sono stato, la dentro. Quando arrivi ad Auschwitz I, la prima cosa che noti, ancora prima di varcare il tristemente famoso cancello, sono le reti deformate. Quelle reti che furono elettrificate, e che, ti spiegano le persone del posto, sono state deformate delle persone che ci si gettavano contro di corsa: “almeno la facciamo finita subito”.

Vedere quel cancello con la scritta mette i brividi. E non è una frase d’effetto. L’effetto è quello di vedere materializzato davanti a te l’orrore in tre semplici parole: “Arbeit Macht Frei”. Da quel momento, non hai più parole, la voce la lasci fuori. Non c’è bisogno di parlare. Li, prima di entrare, se ti guardi attorno, sembra tutto in bianco e nero. Forse perchè tutti conosciamo bene quei posti, li abbiamo visti in centinaia di vecchie foto nei libri. Poi entri e vedi l’orrore. Entri nell’orrore.

E qui, ad Auschwitz I l’orrore è ancora più bastardo perchè regna l’ordine. Palazzine ben tenute, vialetti, piccoli piazzali. Poi entri nelle palazzine e vedi nei sotterranei le camere delle torture. Le prime piccole camere a gas, i graffi insanguinati che da 60 anni stanno li sulla parete. Si vedono le ruote di pietra usate per schiacciare i bambini, le stanze dove Mengele si divertiva a iniettare acqua salata nei bulbi oculari delle persone così, giusto per vedere che effetto che fa. Si vedono stanze di 5 metri per 5 profonde 3 piene di occhiali. Un altra piena di spazzole. Un altra di pettini. Non è dato sapere quante quanti siano, ma l’enormità non è esprimibile con un numero preciso. Si sta in silenzio. Non c’è niente da dire. Li nessuno parla. Non ce n’è bisogno.

Io ci sono stato, la dentro. Ed ho provato nausea. Non per le scene che si immaginano successe li sotto ai tuoi piedi. Nausea per appartenere a quella stessa razza (termine appropriato, li…) che ha osato tanto.

Poi si esce e ci si dirige ad Auschwitz III, la famigerata Birkenau. Quel campo di sterminio visto in Schindler’s List, per capirci. Già da lontano vedi la sagoma di quella costruzione allungata con la torre e quel tunnel centrale dal quale entravano i treni. E cominci ad avere paura. Si ha la sensazione di essere su quel treno e di essere destinati a dover entrare là. Brividi. Qualcuno con gli occhi gonfi si sofferma e guarda l’entrata ma non ce la fa ad entrare nel campo. Lo capisco ma mi faccio forza ed entro.
Davanti a me una enorme radura, disseminata di grandi capanne di legno, la maggior parte distrutte dai soldati Tedeschi in fuga. Lontano, quello che resta delle torri dei forni crematori. Entro nelle capanne, guardo i trabiccoli di legno dove dormivano in 4,5 o anche più in un metro e mezzo di spazio. Le capanne latrina, riscaldate solo dagli escrementi. Ci ritroviamo a camminare a fianco dei binari. Quanti ne sono scesi qui, dove sono adesso? Non ce la fai a darti una risposta. Ti senti in colpa e non sai perché.

L’istinto ti porta all’apoteosi. Il forno crematorio. Quei bastardi hanno fatto saltare tutto prima di andarsene. Ma ancora si intravedono le scale che scendono sottoterra, i locali con le pareti piastrellate da cui spuntano dei ganci ironicamente numerati. “Ricorda il numero dove lasci il vestito” sicuramente avranno detto, sogghignando. Anche li dentro le rotaie. Di un treno più piccolo, composto da una serie di carrelli sui quali venivano caricati industrialmente i cadaveri ammazzati dallo “Zyklon B” e portati nel locale accanto, dove c’erano i forni.

Non è una illusione. Ancora, li c’è odore di morte.

Io ci sono stato, la dentro. E le sensazioni che si provano in quei posti non hanno uguali. Milioni di persone sono accanto a te mentre cammini, leggere, nel vento.

La morte è dolorosa. L’uomo ha saputo renderla atroce.

PSICOPATOLOGIA DEL CLIENTE

Piccola guida ad uso e consumo di chi si avvicina al mondo del commercio, e perché no, di quei clienti che vorrebbero un diverso trattamento da parte di chi sta “dall’altra parte” del bancone.

"No io non lavoro qui, indosso un gilet verde scuro con sopra il logo ed il nome di questo posto solo perché ritengo che faccia molto FIGO!"

PRIMA LEGGE: Il cliente è fondamentalmente stupido.

  • Nonostante la prima legge, il cliente non va mai turlupinato o preso in giro. E’ lui che porta i soldi. Le sue richieste, quando umanamente o tecnicamente possibile (cioè quasi mai), vanno assecondate.
  • Il cliente parla una lingua al limite della comprensione. Esempio tipico di richiesta del cliente: “Vorrei quel coso che poi ci si fa, dai… Quello per quella cosa li in basso che ci si mette un affare…Quello grigio!”
  • Il cliente usa la terminologia che sente in TV, e ovviamente la storpia. Non ha più un telefono cellulare, ma ha uno smartphone (che ovviamente storpia in “starfòn”, “starton”, “farfon” o peggio), vuole prodotti “senza radicali liberi” anche se compra un forno a microonde, qualsiasi pizzeria al taglio diventa il Mecdonalz, tutto è “multimediale”, compreso l’arricciacapelli per la moglie… Inoltre, vi ripeterà gli slogan della TV: quando acquista un balsamo da 1,50€, strizzerà l’occhio con compiacimento alla cassiera dicendole “sa, perché io valgo!”
  • Il cliente ha sempre un amico o parente che se ne intende. Se deve comprare un computer, ogni 3 parole vi ricorderà che lui ha un cognato che ha una figliola che lavora all’ASL, e loro, li in ufficio, coi computer ci lavorano… Quindi, per traslato, lui è Bill Gates in persona. Se deve comprare una canottiera, non si risparmierà certo di ricordare che la su figliola una volta ha fatto un colloquio per entrare a lavorare in una tabaccheria, però vicino ad un negozio di abbigliamento, quindi lei si che è una vera esperta di tessuti! Il mondo è pieno di fratelli di amici di cognati di vicini di casa che ne sanno molto più di un semplice commesso… Che ci volete fare?
  • Il cliente non può vivere senza i prodotti o i servizi che vede in televisione, anche se non ha la più pallida idea di cosa siano. Così si vedono persone che chiedono le “Lambergèc” in salumeria, il “Tresòrdelancom” in libreria, lo Suòc (Swatch) nel negozio di telefoni, lo smartphone nel negozio di abbigliamento e così via. Quando riescono ad avere l’oggetto tanto bramato, esclamano: “ah, è questo? e a cosa servirebbe?
  • Il cliente non ha la minima idea di cosa sia una carta di credito. Per il cliente, una carta di credito, un bancomat, la tessera sanitaria, la tessera della bocciofila, la raccolta punti Agip o la tessera dell’estetista sono esattamente la stessa cosa. E se ti azzardi a fargli notare che non può pagare in un negozio con la tessera della pesca sportiva, si incazza pure, asserendo che “ha sempre pagato con questa,  se in questo negozio non la prendete non sono affari miei”.
  • Il cliente non ha idea di come funziona la garanzia. La domanda che fanno tutti è: “ma la garanzia c’è?”. Certo che c’è, idiota, lo stabilisce la legge Italiana, non è un accessorio che si può mettere o no! La garanzia copre malfunzionamenti o difetti di fabbricazione, non rotture o danneggiamenti più o meno volontari! Se una maglietta è stata mangiata dal cane, non si dovrebbe riportarla al venditore dicendo: “l’ho lavata e mi è uscita così dalla lavatrice: me la cambia vero?”. Se la fotocamera vi è caduta a terra e ci siete passati sopra con l’automobile, non presentatevi dal venditore urlando che “me la deve dare nuova perché è in garanzia!”. Spesso, su questo punto il cliente bara: un cellulare che “ha smesso di funzionare all’improvviso mentre telefonavo”, di sicuro una volta aperto presenterà mezzo litro d’acqua (o altri liquidi meno nobili) all’ interno… Un automobile nuova appena comprata che si ferma dopo 3km, nel 99% dei casi ha subito un pieno di carburante sbagliato. Ma il cliente insisterà: “no sono sicuro, era gasolio!” Appunto, hai comprato una automobile a benzina…!
  • Il cliente non sa leggere e/o ascoltare. Spesso torna insospettito dal negoziante chiedendo “cosa è questa scritta strana che mi è comparsa sul telefono”? C’è semplicemente scritto “Lei ha appena effettuato una ricarica da 5 euro”. Non è difficile. E’ lingua italiana corrente. Un poco di impegno, per la miseria. Quando si fa il numero di un call center, basta ascoltare le istruzioni che vengono date (sempre in lingua Italiana corrente!) invece di presentarsi incavolati dall’esercente esclamando frasi sconnesse tipo “non ci capisco nulla” o “sento le voci”… Se in una confezione c’è scritto “Premere QUI per aprire”, non ci si può presentare dopo dieci giorni incazzati e urlare “mi dica lei come si fa ad aprire questo coso!”
  • Il cliente non ti ascolta! Ti fa parlare per dieci minuti poi esclama: si ma come sarebbe? Esempio tipico: “Per 2 euro a settimana chiami gratis per un ora”. “Ah. E quanto costa?” “2€ alla settimana”. “Ah, 2€ al mese” “No, 2€ alla settimana. Al mese sono 8€” “Come? 8€ alla settimana? Ma siete matti? è un sacco di soldi” “No! 2€ alla settimana, in un mese ci sono 4 settimane, 2×4=8€ al mese”. “Ah ecco. E parlo quanto voglio?” “No, ha un ora di chiamate” “Un’ora? E quanto sarebbe?” “Come quanto sarebbe?? Un ora sono sessanta minuti” “Si, ma sessanta minuti come?” “Sessanta minuti come sono? Sono sessanta minuti in tutto il mondo!” “Ah va bene. E quanto costa?” “2€, come le dicevo prima!” “Ma 2€ al mese?” A questo punto il venditore deve avere il sangue freddo per non accoltellare l’avventore…
  • I clienti arrivano tutti assieme. Se per 3 ore e mezza non si è presentato nessuno al negozio, tranquilli, i clienti arriveranno tutti assieme contemporaneamente, normalmente a 2 minuti dalla chiusura o 5 minuti dopo la chiusura. Addirittura avranno l’accortezza di comparire in ordine decrescente di tempo da dedicargli. Il cliente che per servirlo ci vorrà un ora e mezza entrerà per primo, quello che deve fare una cosa da trenta secondi, per ultimo. E’una legge della natura…
  • La vecchia con la borsa. Fate attenzione alla vecchia con la borsa gigante! Avrà sicuramente bisogno di chiarimenti circa un oggetto che ha acquistato da voi, e tale oggetto sarà gelosamente custodito più dell’arca dell’alleanza! Aprirà la borsa, cercherà negli scomparti, tirerà fuori una seconda borsa che ne conterrà una terza più rigida, dalla quale estrarrà un primo ed un secondo contenitore, al cui interno avrà una custodia contenente un borsello, che avrà all’interno un primo sacchetto di lana, poi un secondo di stoffa ed un terzo di cotone, con all’interno una fodera con all’interno l’oggetto avvolto in un panno di lino. Perché altrimenti prende la polvere. E intanto si è fatta sera. Una volta servita, la signora impiegherà altre 2 ore per tirare fuori il portafoglio (secondo la procedura sopra descritta). Nel frattempo, potete servire i successivi sette clienti.
  • Qualsiasi cosa voi vendiate (abbigliamento, TV, automobili, telefoni, accessori da regalo, barche a vela, soprammobili o cartoline), l’uomo vuole quello visto in TV, la donna quello ROSA!
  • Verranno tutti a comprare il regalo di Natale  il 24 Dicembre a 3 minuti dall’ora di chiusura! E se non hai esattamente quello che vuole il cliente (in genere oggetti assurdi, visti su un “Grand Hotel” del 1986), questo darà in escandescenze urlando frasi del tipo “E ora cosa c*zzo gli regalo io al mì figliolo?”.
  • Se volete un posto sicuro dove scrivere le password del computer, il codice dell’allarme e la combinazione della cassaforte, scrivetelo pure nel cartello dell’orario appeso alla porta: state tranquilli, NON LO LEGGERA’ MAI NESSUNO AL MONDO!
  • Il cliente pensa che il negozio sia sempre aperto, 24ore su 24. Evidentemente, quando le luci sono spente, la porta chiusa, la saracinesca è abbassata e sono le 3:20 di mattina, è inutile affacciarsi al vetro per vedere se c’è qualcuno all’interno. Non viene il sospetto che sia CHIUSO? Se il negozio non è dotato di saracinesca, è facile vedere il cliente che tenta in tutti i modi di aprire la porta (chissà, forse c’è qualcuno all’interno…).
  • Il commesso non ha più una vita privata o sociale. Buttate via il numero del cellulare e staccate il telefono di casa. Nel campanello di casa scrivete un nome finto. Perché il cliente avrà la necessità di contattarvi in qualsiasi momento della giornata per farvi una domanda circa gli argomenti di cui sopra, o perché all’improvviso ha finito la cartuccia della stampante, o ha finito il credito del telefono, o gli si è staccato un bottone o altro. In quel caso, a qualsiasi ora del giorno o della notte, il cliente riesce tramite una serie di telefonate a sapere il vostro nome e cognome e vi cercherà finchè non vi avrà trovato. A costo di telefonare a tutti quelli con il vostro cognome della provincia o di fare 90km in taxi per venire a suonare al vostro campanello. Non potrete più uscire: se andate al cinema, a ballare, in un pub o ristorante, o dall’altra parte del mondo in vacanza, spunterà sempre fuori il cliente ad importunarvi con le sue domande assurde, iniziando la frase con “guarda chi c’è! a proposito…”. Naturalmente vi rintracceranno anche il giorno di Natale alle 12:30 durante il pranzo con i familiari: se squillerà il telefono o suoneranno alla porta, non aprite. Sarà sicuramente un cliente che vuol comprare il regalo di Natale.
  • Quando piove, nevica o comunque le condizioni meteo sono proibitive, preparatevi al peggio! In tali condizioni quando  non uscirebbe di casa neanche Messner con la muta di cani slitta, ovviamente gli unici esseri umani che si avventurano per il globo terracqueo sono i peggiori clienti: la sottocategoria degli psicoclienti, psicopatici che sfidano le forze della natura per venire a chiederti le cose più assurde ed improponibili, tipo “come mai da quando ho cambiato il cinturino, questo orologio fa tic tac? Prima non me lo faceva mica, sa?”.
  • Quando hai appena pulito il pavimento del negozio, anche in piena estate e con la siccità, tempo 10 secondi ed entrerà il cliente con gli scarponi infangati fino al ginocchio, con lo zaino dal quale cadono le zolle di terra bagnata accompagnati dal cane a pelo lungo (bagnato) che si scuoterà ripetutamente la fanghiglia e le pulci su tutto l’arredamento circostante. Il tutto per una semplice domanda: “ma domani siete aperti?”
  • Il bambino piccolo e la mamma maledetta. Quando entra un bambino piccolo in negozio, a menoché non sia saldamente legato ad un passeggino, chiamate i Caschi Blu dell’ONU, i Vigili del fuoco e una ambulanza. La stronza della mamma non lo baderà un attimo, e l’infante approfitterà per DEVASTARE comletamente l’arredamento e le suppellettili del negozio, senza che la stronza gli dica neanche un “stai fermo” di circostanza. Quando avrà rotto 15 vetrine su 20 con i cristalli sparsi in tutto il locale, divelto dal pavimento tutte le bacheche, cominciato a sradicare i listelli di parquet, abbattuto i lampadari con la fionda e sfondato il bancone a calci, ed il commesso si azzarderà a dire “piccolo attento che così ti fai male”, la mamma vi guarderà con tutto l’odio del mondo urlandovi “MA E’UN BAMBINO!!!!!”. (Che noi ci auguriamo che non diventi mai grande!)

In conclusione… Se rileggendo quanto scritto sopra, qualcuno di voi pensa: “Perché? che c’è di strano?” di uno qualsiasi dei punti esposti, vi consiglio di farvi una bella seduta di psicoanalisi prima di entrare in un qualsiasi negozio. Ne va della salute di quei poveri cristi che stanno li A LAVORARE dalla mattina alla sera…

A volte, quando le cose non vanno nel migliore dei modi, ti fermi e pensi. Ultimamente per mia fortuna, in uno di questi periodi grigi, mi sono tornate in mente quelle cose per le quali è valsa la pena aver vissuto questi anni. La chitarra di Steven Rothery in “Incubus”, la poesia di Faber, assistere ad una lezione di Margherita Hack, la stampa in miniatura del Sonetto XVII di Pablo Neruda che portavo sempre con me nel portafoglio perché era come avere sempre “lei” con me, gli occhi che ancora oggi diventano lucidi quando leggono quel Sonetto XVII perché “lei” non è più con me. E l’ironia di Stefano Benni, il Rock Progressivo degli anni ’70, Firenze vista da Piazzale Michelangelo di sera, La Golf del 99, il 3° atto dell’Andrea Chenier di Umberto Giordano cantato da Maria Callas. Il Cervino che si riflette nel Lago Bleu, l’eclisse di sole vista con la radiografia in mano in una piazzola di servizio in Austria, e quella notte d’inverno del ’91, da militare, essere svegliati dalla guardia che ti dice “ragazzi, è scoppiata la guerra”… La cassetta di Misplaced Childhood dei Marillion registrata dallo Zampa sulla mitica TDK da 45, i film di Totò, l’esultanza di Tardelli del 1982, Bombolo, la Bibbienese in Interregionale, la faccia dei commissari d’esame di maturità quando, come autore a piacere, portai Pier Paolo Pasolini. La tomba di Jim Morrison, le lucciole nel barattolo bucato. Il Muletto, il Biondo, la Nerina, la Picci, il Topino e tutti gli altri animali. Aver cantato “And no more shall we part” con Nick Cave nel 2003 a Roma con le lacrime agli occhi. L’aver acceso il pc nel periodo più nero della mia vita ed aver incontrato le persone più importanti della mia vita. Guerre Stellari visto trent’anni fa d’estate in piazza proiettato sul maxischermo, i mondi creati da Tolkien, Orione visto la sera d’estate. La pizza Tandem del Babilonya. Silvano e la Leda.

 

E le ore ed ore passate con lei a ridere, scherzare e parlare fino a sorprenderci che fosse l’alba…