ORFEO MESCALERO – Stefano Benni

Io so che tu puoi guarirla, stregone. La mia ragazza caduta dal cielo, polvere di cometa sul mio tetto, lei che muove col pensiero le altalene dei giardini, lei che con uno sguardo dei grandi occhi bistrati gela il ghigno degli spacciatori, lei odorosa di fiori e nitrato di amile, Euridice, lei che ora è spenta, bianca, immobile nella nostra casa, dove tremano di freddo anche i ragni.
Io so che tu puoi guarirla, stregone, è per questo che ho rubato questa macchina nera come un corvo e guido sotto il temporale, dentro al canyon dei dormitori, mentre la pioggia mescola sul mio parabrezza lampi di bufera, rosso di fanali, giallo di supermarket, blu di ambulanze, verde marziano, e per questo che piango, bestemmio, e grido che non voglio perderla.
Io so che puoi guarirla stregone, anche se agli occhi del mondo lei è morta, troppa chimica, troppi libri, troppe notti da sola, quando io ero lontano. Così mi ha detto: si è sempre soli una notte di troppo. Perciò guido a milleduecento all’ora mentre la radio blatera blues, Bach e bugie, io devo salvarla, capisci, stregone? È per questo che se la polizia mi ferma ho nel cruscotto questa pistola tedesca, la grigia, la baiaffa, la durlindana, la bacia-in-fronte, la lunga, la velenosa, la sparachiodi, krazy-kat, e siate-felici. Non ce l’ho con voi, poliziotti, è che sono straniero qui, non parlo la vostra lingua, soprattutto quella del vostro Grande Capo, io non lavoro per i gangster, se devo rapinare rapino in proprio, non mento, sono veramente cattivo io e quando mi capita di esser buono (succede) non lo faccio vedere. Ho uno shuriken a cristalli liquidi. E non colpisco alle spalle. Ho dormito tante volte all’aperto, sono stato svegliato a calci, sono stato interrogato,
picchiato, rinchiuso, mi avete aperto la testa con le vostre urla, ma è storia passata. Ora sono perbene, non bevo più, stregone, ora ho una macchina da scrivere che compone da sola, balla e la notte si illumina e canta come quattro negri tristi, non mangio più i funghi messicani, stregone, e non mi azzuffo più per le ragazze degli altri, non mi arrampico sui
muri, non ho il pungiglione velenoso, come posso convincerti, stregone Mescal?
Io so dove abiti, stregone, c’è un grattacielo tatuato in città che di notte diventa un astronave, si muove, può sparire e ricomparire in qualsiasi punto, tra i lampi del temporale, ma io lo troverò, stregone, sopra di me vola il mio amico nibbio, ha un radar nel becco, ce l’ho messo io. Può stare fermo in aria come fosse dipinto, lui sì che sa volare, altroché
Tomcat, lui è davvero il Re Nuvola, il Coddaventu, il Glada, l’Aquila delle costellazioni. Quando ho conosciuto Euridice lei era senza capelli, stregone, l’avevano rasata per sfregio, e aveva gli occhi gonfi, chiusi per le botte. E giorno dopo giorno i capelli ricrescevano e gli occhi si riaprivano e il colore le tornava sul volto e lei diventava sempre più bella, stregone. L’ho tenuta come un cucciolo di topo, come una patata nel bicchiere, come una piantina magica è fiorita, per lei ho rubato tutte le biciclette della città, stregone, e tutti i libri e i dischi, e la tenevo al sicuro nella nostra casetta che allora non era così fredda, lei stava nuda alla finestra e parlava con una vecchia vampira giù nel cortile, parlavano dei loro genitori morti, la vecchia aveva novant’anni ma ancora li rimpiangeva, era stata trent’anni in manicomio, è lei che mi ha parlato di te, stregone, di quando sventolando il mantello nero correvi tra i reparti, col tuo odore di etere e il passo di gatto, soffocavi nel sonno chi soffriva troppo, oppure spaccavi le finestre e li lanciavi fuori nella notte, riempivi le flebo di sangue di drago perché rimanessero pazzi e salvi, per sempre. Non posso andare più forte di così, stregone, non voglio schiantarmi come un qualsiasi pollo d’allevamento da discoteca, non voglio fare male a nessuno, frenerei anche se in mezzo alla strada vedessi il Gangster in persona con i suoi servi, tutti coi loro sorrisi da fotomontaggio e le pistole puntate. Per poi ficcarti la canna in bocca, come ho visto fare al bar quando uno non li paga, una pistola in bocca a un ragazzino di dieci anni per cinquantamila lire di droga, si può sopportare tutto questo, stregone? E sai cosa dicono questi piccoli mefisti, questi servitorelli sanguinari? “Se cerchi lavoro, te lo trovo io, baby”
dicono, sono tutti entusiasti da quando c’è il Gangster in città, se non ci credi vieni a vedere, ascolta le loro risate davanti alla televisione, è tornata acqua torbida per loro e se la spassano, ma stiamo tornando anche noi, stregone, la sesta generazione è qui, con forti denti e lunghe orecchie, accendi le mille candele nella sala sacra e aspettaci, verremo a sederci davanti a te, sentiremo il richiamo dei nostri amici ovunque siano, attraverso i muri e i deserti. E poi guerra. Calci in bocca. Dolcemente. Perché è possibile vivere in piedi, monsieur Brel.
Lo stregone stava sul terrazzo, fradicio di pioggia, e cercava di riparare un vecchio flipper. Entrai educatamente, col cappello da Stanlio in mano. Lo stregone bestemmiò, tirò un sorso di benzina, sputò in aria una vampa infuocata e disse:
– Vattene, col tempo cattivo non lavoro.
– Dovrai invece — dissi io. — Una mia amica ha bisogno dite
– Che cosa le è successo? — disse lo stregone, mentre un fulmine spaccava in due un camion, giù sulla tangenziale, e le auto della polizia affogavano nel fango di un torrente.
– È morta. Le serve un cuore nuovo.
– Non si possono fare queste cose disse lo stregone. — La bioetica non vuole. Il papa non vuole. Dio non può e non vuole. Il serpente mescal può e non vuole. E poi ci sono cose più importanti. La polizia ha attaccato le case dei senegalesi, loro hanno gettato giù olio bollente e frecce infuocate, è uscito il loro capo, un’elefantessa, ha travolto dodici agenti e tre camionette prima di cadere morta, una tonnellata di carne, ne ho un pezzo in frigo, vuoi assaggiarla?
– Euridice è tutto per me. Ha cambiato la mia vita.
– Chiunque può farlo. Basta uno spillo qua sotto la nuca, nel punto centrale del meridiano — dice lo stregone, e mi punta contro l’unghia dell’indice, lunga sedici centimetri, laccata di nero e intinta nel veleno di migale. Conficcalo in questo punto, e la vittima sentirà una punturina da niente, ma due ore dopo all’improvviso morirà. Ho
ucciso decine di persone cosi, nel metro.
– Non ci credo.
– Infatti non è vero, ma saprei farlo. Vincere la morte, però, non è in mio potere. Hai già sentito questa frase?
– Non ti credo. Euridice è morta, ma tu puoi aiutarla.
– Ti darò un cuore nuovo per lei — sospirò lo stregone. — Non so perché, ma voi ragazzi della sesta generazione mi intenerite. Mettiglielo vicino, sotto le coperte, camminerà e prenderà il posto del vecchio cuore. E brucia tutto quello che hai in casa, libri, sedie, tavoli, deve fare caldo, o il cuore non batterà. Eccolo qua.
– In una busta del supermercato?
– Volevi uno scrigno d’oro, fighetto?
– Quel flipper non funzionerà mai — dico risentito.
– Ding dong, tutto si accende. La pallina vola a prendere schiaffi dai funghetti, il cavallo scalcia, il cowboy salta sulla sella, la bionda si illumina ridente e dal cappello le escono miliardi di punti. Lo stregone sghignazza, i segni di guerra bianchi gli ballano sul volto d’ebano.
– Se funziona il flipper, funzionerà anche il cuore — penso io.
– Voi della sesta generazione siete dei sognatori arrugginiti, dei viaggiatori timidi, dei viziati e dei codardi.
– Sempre meglio degli spettatori della quinta generazione — dico io — e poi chissà come sarà la settima.
– Lupi — dice lo stregone — perfetti, sanguinari, amichevoli lupi. — Socchiude gli occhi e il flipper esplode.
Sono tornato a casa, il temporale è cessato, ho messo nel mangianastri quella favola che ti piace tanto, quella del bambino che doveva camminare tre giorni e tre notti nella neve, per lasciare quel paese orribile, insieme col suo orso. Volevano tornare nella loro patria, o in un’altra, per fare spettacoli e ballare. Chissà dov’è adesso, chissà se ce l’ha fatta. Ma tu Euridice resti bianca fredda e indubbiamente morta e io temo che presto dovrò ritornare tra le fragranti fresche lenzuola del manicomio e aspettare la flebo dorata e la nebbia del roipnol e le discussioni sulla fine del mondo col Pittore dei Cessi Fiat, Mastro Gommapiuma, quello che ha sabotato da solo interi reparti, o con Capitan Corallo, che
quando suonava il tamburo nelle manifestazioni polverizzava col rumore i poliziotti, come i guerrieri di sabbia cinesi.
Lo sai vero, uccellino, che ci sono stati anni e secoli di lotte operaie? Non lo sai? Ti piacerebbe saperlo? Papà e mamma non vogliono e (soprattutto) il Gangster non vuole? Bevi questo te di mescal e leggi nei fondi, se ci riesci. Ho messo il cuore dello stregone sotto le coperte del letto di Euridice. Ma non si muove, pulsa un po’ soltanto muovendo la codina. Fuori sento cori per qualche vittoria sportiva, petardi e mine che esplodono, incitamenti a impiccare qualcuno. In cortile i suoi due colleghi della sesta generazione che stanno partendo con zaini molto più grandi della casa dove abitavano.
– Euridice è morta, grido.
Ti manderemo una cartolina — rispondono, salutando con la mano.
Stanotte, amore, vorrei rileggerti la storia del bambino e dell’orso, o anche quella del dottore inglese, quello che diventava la sua parte oscura, piccola storpia e saltellante, e così evocheremo l’Ombra e lo Specchio e il Doppio, e saremo in tanti che la Morte non saprà più chi prendere.
Eccola, è arrivata, sorridente; pallida, fa finta di niente. È travestita da Allegro Controllore dei Contatori del Gas. Ma intuisco la sua mano di scheletro, nascosta dal guanto.
– Posso dare una controllatina? — chiede con voce da annunciatrice.
– Vaffanculo, mannara, so chi sei. Controlla pure. Euridice non è morta.
– Veramente all’Azienda risulta diversamente — dice seccata la Morte — abbiamo staccato il contatore mezz’ora fa.
– Prova a toccarla — dico e ti smonto osso per osso.
– Non sono fatta di ossa — protesta la Morte — sono un composto biosintetico polimerico molto resistente e ho in memoria dodici trasformazioni virtuali con cui terrorizzarti.
– Anch’io, dico. E mi trasformo in lupo, li su due piedi.
– Mica male, dice lei, e si trasforma in un lupo il doppio del mio.
Ci azzuffiamo. Voliamo giù dalla finestra, lei si rialza per prima e corre su per le scale cercando di raggiungere con le sue zampacce Euridice, se la tocca col suo gelo è perduta, ma io le balzo dietro e con un morso le stacco la coda. La Morte guaisce come un chihuahua. Esce sul pianerottolo il Griso, il pusher della zona, quello che ha fondato il Club Patriottico
Spacciatori, con un mitra Uzi in mano e le mutande nere da ring.
– Cos’è tutto questo casino?
Ci ritrasformiamo, io in un bel ragazzo della sesta generazione e la Morte in una fotomodella bionda di Losangelì.
– Però — dice il Griso — migliora questo condominio.
– Questo ragazzaccio vuole farmi del male — trilla la top-morte.
– Lo sistemo subito — ghigna il Griso.
– Per fortuna arriva il mio amico Dulcinea, un transex-tir alto quasi due metri, bello e truccato come un attore Kathakali.
– Via quel mitra, Griso — ordina — qua non siamo in Parlamento.
– Questo ragazzaccio… — inizia la falsa bionda.
– Va via, Morte, ti riconosco dalla puzza…
– La mannara se la svigna, ma prima di andarsene dice perfida al Griso:
C’è un bel cuore nuovo in quella casa, io non me lo lascerei scappare.
Il Griso si fonda dentro, solleva la coperta, il cuore è li, che sobbalza. Il Griso lo prende
in mano e lo soppesa interessato.
– Con questo ci faccio almeno venti milioni — dice.
Gli affondo i denti nel collo. Suonano le chitarre. Il Griso tira le cuoia, molla il cuore che ballonzola per terra e si nasconde spaventato sotto una cassapanca. La Morte bussa.
– Come va la nostra bella Euridice? — strilla da fuori.
– Cuore — grido — vieni fuori da li sotto.
Neanche a pensarci. Non si muove. Ho un’idea: metto un nastro di samba. I cuori non resistono al ritmo del samba. Eccolo che esce dal nascondiglio e si muove, sistola e diastola, muove l’apice e scuote il culo, dài cuore, salta sul letto, vola dalla mia Euridice, balla amico mio, e infatti il cuore spicca un balzo e si tuffa nel petto di Euridice che lancia
un grido, mentre le schizza fuori il cuore vecchio, nero e raggrinzito. Lo butto al gatto. Gli butto anche tutto il Griso, meno uno stinco. Ma sotto la finestra c’è la Morte che lascia al gatto solo un occhio e si prende il resto.
– Almeno non ho fatto un viaggio a vuoto — borbotta — e se ne va su un furgoncino giallo con adesivi heavy-metal.
Euridice si alza dal letto e dice che ha fame, le preparo cinquanta uova di gallo cedrone, una cipolla dello Yucatan e lo stinco del Griso arrostito al falò di sedia.
– Mi sembra di aver dormito — dice lei.
– Invece eri morta.
– Proprio così — dice lo stregone.
Con un inchino lo ringraziamo. Le altalene dei giardini riprendono a dondolare. Ricomincia a piovere. Preparo il tè. Bisognerà comprare un tavolo nuovo, quello vecchio brucia al centro della stanza e fa un bel calduccio. Bussano alla porta. È un angelo biondo di sei anni con grandi orecchie, insieme a un gigantesco orso col cappello da marinaio.
– Vi interessa uno spettacolo di danze ussare a domicilio? — chiede l’angelo.
– Da dove vieni?
– Il piccolo indica il nord, e fa capire che c’era neve e freddo, che se l’è vista brutta.
– Entrate, scaldatevi — li invito io.
– Ce l’ha fatta, cosa ti avevo detto? — grida Euridice, contenta. — C’è sempre qualcuno che ce la fa.
– Potrei assaggiare un po di quello stinco di bue? — chiede timidamente l’ orso.
– Non è di bue. E lo stinco di un uomo molto cattivo.
– Non esistono uomini cattivi — dice l’orso — se sono cucinati bene.
Lo dice sempre anche lo stregone. Ci fu una gran festa a casa nostra, quella notte. Grazie, stregone Mescal.